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Jacques Audiard • Regista

"La prigione come una metafora della società"

di 

- Estratti della conferenza stampa del festival di Cannes 2009 dove Il profeta ha conquistato, una settimana più tardi, il Gran Premio

Affiancato dai suoi due attori principali, i suoi tre co-sceneggiatori e due dei suoi produttori, il regista francese Jacques Audiard ha svelato alla stampa internazionale alcuni segreti della realizzazione del suo film Il profeta [+leggi anche:
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, presentato in competizione al 62mo Festival di Cannes.

I film in ambito carcerario sono quasi un genere a sé. Come è riuscito a evitare gli stereoptipi e a raggiungere questo realismo impressionante?
Oggi, in Francia, quando vuoi fare un film ambientato in carcere, ci sono due ostacoli: il documentario che vira verso il sociale - cosa che non mi interessava - e l'influenza dell'immaginario della prigione data dalle serie americane, con archetipi che non ci appartengono. Abbiamo visitato molte carceri alla ricerca della nostra location, ma erano tutte troppo antiche, e quindi era impossibile girarvi. Alla fine abbiamo costruito noi la scenografia. È stata una tappa molto importante perché è da lì che il film ha preso forma. Non si trattava di uno studio con soffitti e pareti mobili, ma di una scenografia rigida. E il realismo viene da sé quando entri ogni giorno in una prigione.

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Qual è stato il suo punto di vista per quanto riguarda il racconto?
La sceneggiatura mi è stata offerta da Abdel Raouf Dafri e Nicolas Peufaillit, e noi l'abbiamo rielaborata assieme a Thomas Bidegain. Non volevo fare un'analisi sociologica, ma parlare di ambienti mafiosi costituitisi in ambiente carcerario, di entità chiuse, difficili da penetrare. Mi piaceva anche il fatto di fare una storia con lingue e idiomi differenti (il corso e l'arabo) che chiudono i gruppi, danno loro un aspetto misterioso. Vi era l'idea di un ambiente criminale in cui si confrontassero i vecchi e i nuovi, con le loro diverse culture. Il personaggio del Profeta è l'emblema di questo nuovo prototipo di criminale: non è uno psicopatico, ma è intelligente e quasi angelico. Ciò che mi interessava era anche trattare la prigione come una metafora della società. In un attimo, il dentro e il fuori del carcere diventano la stessa cosa, e ciò che impari dentro ti serve fuori. Volevo creare un personaggio che non avesse altra soluzione che imparare in prigione ciò che avrebbe messo a frutto fuori. È anche un personaggio piuttosto vergine, che ritrova la sua identità all'interno di una comunità: una questione che non si era mai posto prima.

Il profeta è un film di genere, ma introduce elementi onirici e propri del cinema fantastico.
Volevo fare un film di genere con volti sconosciuti, ad eccezione di Niels Arestrup, una sorta di western, un L'uomo che uccise Liberty Valance senza John Wayne. Le scene oniriche e il fantastico (con il fantasma) hanno permesso di dare una vita interiore al personaggio di Malik, di rappresentare, al di là delle varie situazioni, quello che passa per la sua testa quando la porta della cella si richiude. Mi piace mischiare i generi, spostare le linee di confine. Il cinema non deve più utilizzare soltanto strumenti legati al passato. Vi è ad esempio una commistione tra l'analogico e il digitale che implica per forza di cose che la percezione e la restituzione del mondo siano differenti.

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