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Juan Antonio Bayona • Regista

“Volevo raccontare quello che i notiziari non dicono”

di 

- Il secondo film del regista del campione di incassi El orfanato è una produzione di grande complessità tecnica, che ricrea, con un verismo travolgente, lo tsunami del 2004.

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, quasi sente lo tsunami sulla propria pelle.

Juan Antonio Bayona: Sì, volevo immergere il pubblico in quello che è successo. Per questo ho dato importanza alle sensazioni. Quando parli con le persone che stavano lì, ti dicono che tutto successe in modo così rapido, nei due giorni che racconta la pellicola, da non avere il tempo per pensare. Volevo stare nella testa di questa gente: per questo è un viaggio più emotivo che intellettuale quello che il pubblico deve sperimentare. La parte cerebrale appare nel finale, quando leggi il titolo “Lo imposible” e pensi: e ora… che succede?

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Aveva qualche pellicola catastrofica in mente come modello? Il film sembra rientrare in questa tendenza.
No, il cinema catastrofico tende a raccontare la tragedia da più punti di vista e riservando l'ecatombe al climax finale. Noi abbiamo fatto il contrario: cominciamo col maremoto e ci concentriamo su una sola famiglia. Perché volevo sentire la sua storia. Oggi uno vede le notizie alla televisione ed è come anestetizzato: vede gli avvenimenti, ma non vede le persone. Io volevo stare con la gente e mostrare quello che i notiziari non mi avevano raccontato.

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c'era una componente fantastica dominante, qui regna il realismo duro e puro.

Il realismo, che è sempre una convenzione quando fai cinema, o il presunto realismo, era fondamentale per questa pellicola: a livello tecnico lo tsunami doveva essere realista, perchè era lo snodo della storia. Ma doveva esserlo anche a livello emotivo: il film è un viaggio sul dolore e su come il dolore si trasformi da fisico a emotivo nell'ultima scena del film.

Quella lacrima di Naomi Watts...
Solitamente ne parlo come il secondo tsunami della pellicola. Il primo è un'onda nera di morte, il secondo lo porta Naomi con una sola lacrima carica di dolore. E' una delle idee del film: non limitarsi a raccontare una storia in cui i personaggi vivono o muiono, ma dire che anche nella sopravvivenza c'è sofferenza.

Parlerei di un terzo tsunami: quello che il film provoca nello spettatore, perché è impossibile trattenere le lacrime vedendo The Impossible.
So che è una scelta rischiosa, perché c'è molto tabú nel mostrare le emozioni. C'è gente che si sente a disagio nel farlo e la pellicola punta su questo senza vergogna. Le emozioni sono mostrate così come le vissero in Thailandia: da vicino.

Le riprese sono dovute essere molto complesse, con tanta acqua, effetti e bambini.
C'erano molte complicazioni… è stata dura. Da una parte, la sfida tecnica cui si è sottoposta la squadra spagnola; poi bisognava dirigere attori di quel calibro in una lingua (l'inglese) diversa dalla nostra e inoltre girare con bambini anche di quattro anni... La cosa più complicata era unire tutti i pezzi del puzzle e far sì che funzionasse.

Quanti mesi di riprese ci sono voluti?
E' stata una lavorazione atipica perché dovevamo fermarci per preparare le riprese successive. Le infrastrutture necessarie erano talmente grandi che non potevamo girare di filato. Alla fine, tra settimane di prove, test tecnici e le riprese in sé, ci sono volute 25 settimane, spalmate nell'arco di un anno.

Quanto è costato in totale?
30 milioni di euro.

Già si parla di The Impossible per l'Oscar. E' preparato per questo?
In verità, no. Sicuramente avrebbe buone possibilità, ma è qualcosa che dalla Spagna è molto difficile ottenere, perché la pellicola è spagnola, io vivo a Barcellona e il produttore a Madrid. Ed è difficile fare una campagna per l'Oscar da qui. Però stiamo avendo un sostegno eccezionale dal distributore americano e non si sa mai.

Di fatto, il film esce negli Stati Uniti a dicembre, come i titoli favoriti per il premio…
Sì. Il distributore (Summit Entertainment) ha fissato l'uscita a Natale perché conta molto sul film.

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