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Sacha Wolff • Regista

"Mercenari che arrivano da tutto il mondo"

di 

- CANNES 2016: Sacha Wolff parla di Mercenaire, un’opera prima incisiva e sorprendente scoperta alla Quinzaine des Réalisateurs Label Europa Cinemas

Sacha Wolff  • Regista

L’indomani della première molto ben accolta di Mercenaire [+leggi anche:
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intervista: Sacha Wolff
scheda film
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, svelato alla Quinzaine des Réalisateurs del 69° Festival di Cannes, il cineasta francese Sacha Wolff ha spiegato a Cineuropa perché ha scelto, per questo suo primo lungometraggio incisivo e sorprendente, di raccontare le disavventure di un giovane wallisiano nel rugby professionale francese.

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Cineuropa: Che cosa l’ha spinta a lanciarsi in un film ambientato nel mondo del rugby, poco trattato al cinema?
Sacha Wolff: E’ uno sport che ho sempre amato guardare e trovavo che avesse un grosso potenziale cinematografico, stranamente non sfruttato. Amo anche i film di boxe, ad esempio, che hanno un lato fisico molto forte, ma la cosa interessante nel rugby è la sua dimensione collettiva e sociale. All’inizio era un’idea alquanto vaga, poi mi sono imbattuto in un articolo di Le Monde che parlava di questi giocatori, di questi mercenari provenienti da tutto il mondo per aiutare le piccole squadre a scalare le divisioni superiori. Là, mi sono detto che c’era forse un soggetto e ho incontrato Laurent Pakihivatau, che interpreta il ruolo di Abraham nel film, un pilone caledoniano, di origine wallisiana, che giocava a Lione. Mi sono detto che il soggetto del film era là, in questi francesi che vengono da altrove e che si confrontano con la loro identità attraverso questo viaggio e questo espatrio.

Che ricerche ha fatto per inquadrare la cultura di Wallis-et-Futuna?
Quando presentavo il progetto per cercare finanziamenti o ai miei amici, mi chiedevano sempre: "Ma chi sono questi wallisiani?". C’è una grande nebulosa su questa parte del mondo che è francese ed è completamente sconosciuta. Volevo esplorare questa zona grigia. Siamo stati i terzi a girare un lungometraggio in Nuova Caledonia, e un territorio così vergine è appassionante! Venendo io dal documentario, avevo bisogno di passare molto tempo a scoprire questo universo. Dovevo impregnarmi della cultura wallisiana. Quindi sono andato molte volte laggiù e ho passato molto tempo soprattutto con Laurent Pakihivatau, che mi ha aperto le porte della sua famiglia e della cultura locale.

E per il mondo del rugby professionale e semi-professionale?
Qui, nella Francia metropolitana, ho incontrato dei dirigenti e molti giocatori stranieri, e ho provato a identificare tutte le problematiche annesse. Poi ho sentito il bisogno di allontanarmi dal documentario per andare verso la finzione servendomi di questo materiale che avevo raccolto.

E cosa ci dice del doping, "le caramelle magiche" del film?
Tutti ne parlano, nessuno ha visto, nessuno sa, ma è evidente. Tuttavia su questa questione avevo voglia di sdrammatizzare un po’ e di non cadere in una sorta di sfida che avrebbe voluto dire che "il doping fa male".

La situazione richiama una specie di commercio di "bestiame", una parola utilizzata nel film, che lei dipinge attraverso il reclutamento e i trasferimenti dei giocatori. E’ legato a questi giocatori in particolare perché vengono da altrove o è lo sport professionale in generale a funzionare così?
Lo sport professionale, e a mio avviso, il mondo del lavoro in generale. Ho incontrato un reclutatore che mi ha detto: "E’ facile, vai laggiù a cercare il più giovane, il più grande, il più grosso". E’ la prima frase del film, perché mi sembrava rivelatrice del principio di base che regge lo sport oggi: la performance, la redditività, squadre gestite come imprese con il personale a rotazione, dove tutto è misurato, calcolato affinché le performance siano ottimali. E’ la logica dello sport spettacolo professionale. Ma non sono un giornalista d’inchiesta e volevo solo servirmi di questa materia per raccontare sotto forma di finzione un aspetto di questa economia, di questo universo nascosto.

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(Tradotto dall'inglese)

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