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Giorgio Diritti • Regista

"Una strage di innocenti"

di 

- Dopo il suo primo film Il vento fa il suo giro, che ha raggiunto un inaspettato successo grazie al passaparola, Giorgio Diritti torna con un’opera seconda ambiziosa

Il suo primo film, Il vento fa il suo giro [+leggi anche:
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, è stato uno dei pochi “casi” del cinema italiano recente, distribuito con fatica (dopo esser stato rifiutato da alcuni grandi festival) e salutato poi da un inaspettato passaparola che gli ha garantito, se non incassi milionari, almeno una lunga – in alcuni casi lunghissima – tenitura. Oggi Giorgio Diritti torna con un’opera seconda ambiziosa, L’uomo che verrà [+leggi anche:
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intervista: Giorgio Diritti
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, omaggio commosso e commovente ad una pagina drammatica della storia d’Italia, doppiamente premiato (dal pubblico e dalla giuria) all’ultimo Festival di Roma.

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Cineuropa: Perché ha scelto di girare un film sull’eccidio di Monte Sole? E come mai il cinema italiano ha taciuto così a lungo sull’argomento?
Giorgio Diritti: L’Italia, non soltanto il nostro cinema, ha come rimosso le pagine più efferate: non si sono fatti i conti con quella che è stata una guerra civile, anche se non dichiarata: si è preferito fare film sugli stereotipi della Resistenza, oppure cedere ai trionfalismi, invece di tener conto delle sfaccettature della Storia, di cui è importante mantenere viva la memoria. Soprattutto quando si tratta di eventi come l’eccidio di Monte Sole: quanto accadde sessant’anni fa in Italia, oggi è d’attualità altrove, e dobbiamo vigilare perché la popolazione civile venga sempre tutelata, e perché non riprendano piede ideologie come quelle che hanno portato a queste stragi.

Prima del suo film, anche Spike Lee aveva affrontato questi temi: ha visto Miracolo a Sant’Anna [+leggi anche:
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Certo, ma soltanto dopo aver finito le riprese: volevo evitare qualsiasi tipo di influenza. Ciò che posso dire, e che mi spiace vista l’ammirazione che provo per Spike Lee, è che l’approccio sia stato poco attento da un punto di vista storico, e si sia appoggiato invece al “romanzesco”. Il suo limite è di non essere credibile, e tradisce la difficoltà di un regista americano di comprendere ciò che accadde in Italia, soprattutto se privo di informazioni sufficienti: è come se io decidessi di fare un film sul Bronx, senza un approfondito lavoro di ricerca alle spalle.

Lavoro di ricerca che invece c’è stato per L’uomo che verrà
Sì, ed è stato lungo e faticoso: il lavoro di preparazione è durato molti anni, durante i quali – accanto allo studio e alla lettura dei documenti – ci sono stati anche gli incontri con i sopravvissuti e i partigiani, con le persone che hanno vissuto quegli avvenimenti. Gente normale che sognava di vivere amandosi e crescendo i propri figli, e improvvisamente si trovò travolta da qualcosa di esterno di cui non capiva il senso. Fu una strage degli innocenti, e ho voluto raccontarla “dal basso”, attraverso gli occhi di una bambina, Martina, in cui ogni spettatore può riconoscersi.

Una scelta che aumenta il senso di immedesimazione dello spettatore…
L’obiettivo è catapultarlo nel ’44, come in un viaggio spaziotemporale che lo conduca in un’altra dimensione, dove i tempi sono quelli della vita di allora, così come i volti e i luoghi. Il realismo e il coinvolgimento emotivo sono i punti di forza che trasformano L’uomo che verrà in un film dalla vocazione molto “popolare”.

Il film adotta anche scelte coraggiose: come hanno reagito i produttori di Rai Cinema di fronte alla scelta di girare in dialetto emiliano?
Poco prima delle riprese mi sono accorto che sarebbe stato utile girare in dialetto: l’italiano “bolognesizzato” previsto in un primo momento rischiava di cadere nel ridicolo, o di ricordare certe commedie anni ’70. In Rai, come alla Mikado che ci distribuisce, all’inizio c’è stato un certo disagio: dopo i primi girati però ci sono state reazioni entusiastiche, e la scelta ha aiutato anche le protagoniste, Maya Sansa e Alba Rohrwacher, ad amalgamarsi con gli attori non professionisti, padroni “naturali” del dialetto.

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