email print share on Facebook share on Twitter share on LinkedIn share on reddit pin on Pinterest

Paolo e Vittorio Taviani • Registi

“Un'esperienza unica”

di 

- I due maestri del cinema italiano raccontano l'esperimento Cesare deve morire con la coinvolgente immersione nel carcere romano di Rebibbia

Figure ben note del cinema internazionale e vincitori della Palma d'Oro cannense nel 1977, gli ottantenni registi italiani fanno un sorprendente ritorno con Cesare deve morire [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Paolo e Vittorio Taviani
scheda film
]
, uno straordinario esperimento cinematografico di teatro shakespeariano in un carcere romano di massima sicurezza. Un film che ha entusiasmato la 62ma Berlinale, dove è stato presentato in concorso.

Voi considerate Shakespeare come uno dei vostri principali riferimenti. Perché?
Paolo Taviani: Diciamo scherzosamente che Shakespeare è stato per noi un padre, un fratello e un figlio. Quando eravamo giovani, era un mito: abbiamo letto le sue opere, percepito la sua grandezza e abbiamo utlizzato nel nostro lavoro gli strumenti che ci ha dato. Ma la sua opera era così accessibile che ci siamo sempre sentiti molto vicini a lui, come un grande fratello geniale. Perché non bisogna mai smettere di ripeterlo: è sempre importante riscoprire Shakespeare. Ora che abbiamo una certa età, abbiamo deciso che potevamo cambiare Shakespeare un po', decostruirlo per riassemblarlo in altro modo. E lo abbiamo fatto per il cinema, che è un mondo piuttosto lontano da quello di Shakespeare. Abbiamo anche pensato che fosse una buona idea montare questa pièce teatrale in carcere.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Perché avete scelto proprio il Giulio Cesare?
Vittorio Taviani: È cominciato tutto per caso. Un nostro amico ci aveva raccontato che aveva pianto a una pièce teatrale, cosa che gli capitava di rado, e che questa pièce era rappresentata in carcere. Ci siamo andati. Eravamo in una sezione di alta sicurezza con dei criminali mafiosi che recitavano L’inferno di Dante. Loro stessi erano nell'inferno della prigione e si identificavano totalmente con i personaggi. Tutti sanno che cosa sgnifica la prigione e i film americani ne danno una certa immagine. Ma quando entri in un carcere e cominci a lavorare con i detenuti, crei una complicità, una prossimità, cerchi di comprenderli. Siamo quasi diventati amici con loro, ma a un certo punto qualcuno ci ha detto: “Sono dei criminali, fate attenzione!”. Si può comunque provare amicizia per loro perché soffrono per quello che hanno fatto. Ci siamo allora chiesti che cosa potevamo fare per loro, come mostrare la loro realtà. E abbiamo pensato che il Giulio Cesare potesse essere una buona scelta. Tutti conoscono la storia di Bruto e ci chiedevamo come sarebbe stato il testo nel dialetto napoletano degli “uomini d'onore”. Erano al contempo nel loro mondo e in quello di Shakespeare. La pièce parla di potere, di tradimento, di assassinio, del capo. Ci siamo detti che forse potevamo riuscire a includere le loro esperienze, le loro personalità e la loro realtà nella pièce. Perché le loro vite sono drammatiche e le si poteva collegare al destino di Bruto, per esempio. Potevano facilmente entrare nei panni dei personaggi. Con questo film, abbiamo voluto mostrare la vita, i traumi che questi detenuti hanno vissuto, la violenza, la sofferenza, il fallimento, il dolore. Perché la prigione è un'esperienza terribile.

Come si è svolto il casting?
Paolo Taviani: Quando abbiamo incontrato questi attori, erano al contempo detenuti e attori. Fabio Cavalli ci ha aiutato molto poiché è un regista di teatro che ha dedicato parte della sua vita al teatro in carcere. Ci ha dato la possibilità di incontrare i detenuti. Poi, ne abbiamo scelti alcuni. Durante le audizioni e le prove, hanno dato il loro vero nome, non pseudonimi, hanno pianto, si sono arrabbiati, e sapevano che tutto questo sarebbe diventato un film che sarebbe andato nelle sale italiane. Questo ci ha sorpreso molto, così come il fatto che recitavano molto bene, anche se in modo un po' convenzionale. Quando l'attore dice “vado a uccidere Cesare”, traspare un dolore che non è quello di un attore normale, perché richiama il proprio passato. Questi attori detenuti erano capaci di comunicare in modo molto emozionale.

Perché avete realizzato il film in bianco e nero?
Vittorio Taviani: Oggi, ci sono talmente tante immagini a colori che danno una rappresentazione naturalista… Volevamo mostrare altro: quello che c'è nell'anima della gente. È per questo che abbiamo scelto il non realismo del bianco e nero. Per noi, è stata un'esperienza unica. Quando siamo entrati per la prima volta in prigione, era come penetrare in un mondo nuovo. La complessità del destino umano è molto misteriosa.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere altri articoli direttamente nella tua casella di posta.

Leggi anche

Privacy Policy