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Claudio Giovannesi • Regista

Un Alì pasoliniano, tra sentimenti e integrazione

di 

- Claudio Giovannesi approda al cinema di finzione con Alì ha gli occhi azzurri, applaudito dal pubblico al Festival di Roma, dove era in Concorso

Continuando la ricerca sulle problematiche adolescenziali e dell'integrazione culturale nelle periferie, iniziata con il mediometraggio Welcome Bucarest nel 2007 e il documentario Fratelli d'Italia nel 2010, Claudio Giovannesi approda al cinema di finzione con Alì ha gli occhi azzurri [+leggi anche:
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intervista: Claudio Giovannesi
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, applaudito dal pubblico al Festival Internazionale del Cinema di Roma, dove era in Concorso. Un film ricco di spunti ma che rimane essenziale e misurato, senza ostentare proclami sulle "primavere arabe". "Non è mia intenzione dare soluzioni. Tutto quello che ho fatto è stato mettere in evidenza un conflitto e le contraddizioni che sono alla base dell'integrazione. Probabilmente nel confronto e nel dinamismo di queste soluzioni possiamo intravedere speranza per il futuro" afferma Giovannesi nell'incontro con la stampa.

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Cineuropa: Qual è l'origine del titolo del film?
Claudio Giovannesi: Sono stato ispirato da Profezia, una poesia scritta da Pier Paolo Pasolini nel 1962, in cui prefigurava già l'avvento di una società multirazziale. Nei suoi versi si parla proprio di popoli che vengono dal mare per deporre sulle nostre rovine il germe della Storia antica. Inoltre, la prima volta che ho incontrato Nader indossava proprio delle lenti a contatto colorate e, ripensandoci dopo, mi è sembrato proprio una casualità interessante.

Dalla scelta di ambientare la vicenda sul litorale romano alla natura stessa dei personaggi, il film omaggia i "ragazzi di vita" di Pasolini. In che modo questi ragazzi di periferia si differenziano da quelli degli anni Sessanta?
Il mio non vuole essere un riferimento culturale ma un omaggio estetico e sentimentale. In modo particolare mi ha sempre emozionato lo sguardo puro con cui Pasolini riusciva ad osservare quel mondo. I ragazzi sono molto cambiati. Oggi ci troviamo di fronte ad una realtà interrazziale in cui le radici si scontrano con la società dei consumi. E' esattamente quello che accade a Nader quando, nonostante l'opposizione della famiglia, sceglie di confrontarsi con il mondo attuale.

Il film deriva dal tuo documentario Fratelli d'Italia, presentato proprio al Festival di Roma nel 2009. Perché ha scelto di riprendere il discorso e trasformarlo questa volta in un racconto cinematografico?
Volevo continuare a lavorare sul tema dell'adolescenza in un territorio piuttosto marginale come quello della periferia. Certo, rispetto alla realizzazione del documentario, abbiamo dovuto cambiare molte cose, soprattutto l'approccio dei ragazzi alla recitazione. In modo particolare, se prima spingevo Nader e i suoi compagni a non agire mai in funzione delle macchine da presa, questa volta li ho condotti verso una maggiore consapevolezza del lavoro di messa in scena. In questo modo ho potuto approfondire meglio anche gli aspetti sentimentali e quelli che riguardano la microcriminalità che li circonda.

Come avete realizzato in fase di scrittura la trasformazione di persone reali in personaggi?
Con il cosceneggiatore Filippo Gravino abbiamo frequentato i ragazzi per settimane, seguendoli sul treno che da Roma li riporta sul litorale di Ostia e trascorrendo con loro giornate intere. Poi, una volta raccolto tutto il materiale, abbiamo ragionato sul modo migliore per dargli la forma del racconto.

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