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Jacek Borcuch • Regista

“Sono dalla parte dell’umano”

di 

- Incontro con un artista in cerca di verità emotive che firma con Lasting il suo quarto lungometraggio.

Dopo la sua première mondiale al Sundance 2013 nella competizione World Cinema Dramatic, Lasting [+leggi anche:
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del polacco Jacek Borcuch è stato presentato in prima europea al festival di Rotterdam, nella sezione Spectrum. E’ il quarto lungometraggio di finzione del regista dopo Caulliflowerr, Tulips e All That I Love [+leggi anche:
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(selezionato al Sundance nel 2010 e candidato polacco all’Oscar 2011).

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Cineuropa: Lei ha suonato il piano, provato a diventare cantante d’opera e sperimentato il mestiere d’attore prima di fare il regista. Perché, alla fine, ha scelto questa strada?
Jacek Borcuch: C’è stata un’altra tappa ancora, giacché ho studiato filosofia. Ho cercato a lungo la mia strada. Dopo aver recitato in The Debt di Krzysztof Krauze, ho provato una grande fatica, la sensazione che quello che facevo era artificiale: mi immaginavo in un altro modo. Era la fine degli anni ‘90, un’epoca molto difficile per il cinema polacco, ma allo stesso tempo arrivavano le tecnologie che permettevano di girare film in modo indipendente, per conto proprio.

Questa apertura a discipline artistiche così diverse ha sicuramente influenzato la sua creatività. Ha offerto forse più prospettive al suo modo di guardare il mondo e la realtà?
Esattamente. Sono sempre stato attratto da tante cose e gli orizzonti dei miei interessi sono sempre stati aperti. Non è per diventare un regista migliore, bensì una sorta di atavismo. I miei interessi non sono mai sazi perché sono sempre incerto nel mio atteggiamento rispetto alla materia della vita e dell’arte. Non ci sono cose evidenti per me, non vedo semplici verità.

E’ certamente questa sorta di inquietudine che rende i suoi film così emozionanti, soggettivi…
Sì, tutto quello che scrivo è accompagnato da emozioni. Non sono uno sceneggiatore professionista capace di sviluppare diversi intrighi allo stesso tempo e scegliere, con distanza, ma versione migliore. Lavoro sempre su una sola storia, per un anno, e non riesco a scrivere separandomi da me stesso. Ma le mie storie non sono copie esatte della mia vita: sarebbe molto noioso. Voglio trasmettere una sorta di verità, trasporre le mie emozioni in modo che il film sia capito da tutti.

Parlando di Lasting ha dichiarato: "Ho deciso di abbandonare la forma, che era sempre stata molto importante per me, a vantaggio della storia, della verità. Quando penso ai miei prossimi film, so che diventerò sempre più radicale e che tenderò a un minimalismo sempre maggiore". E’ possibile rinunciare alla forma?
Lei mi prende alla lettera… Non so se è possibile abbandonarla completamente giacché la forma è come un marchio dell’artista, è come il suo DNA. Ma è vero che in Lasting sono stato molto attento a che la forma fosse netta, a non manipolare le emozioni dello spettatore. So che mi è facile tenere lo spettatore in sospeso, in uno stato di malinconia. E’ per questo che ho tentato di fare un film che non avesse grandi effetti e l’ho semplificato fino al limite delle sue possibilità.

La predominanza della forma sulla storia non era evidente nei suoi film precedenti Tulips e All That I Love. Sembra che lei dia sempre la priorità all’uomo e alla sua verità.
In effetti, faccio un cinema totalmente esistenziale. Per me, la cosa più importante è parlare di ciò che c’è in noi: la paura, il desiderio, l’amore, l’indifferenza, la passione, la nostalgia…

In tutti i suoi film c’è anche una luce, una speranza.
Perché sono dalla parte dell’umano. Forse sono un idealista, ma penso che tutto il male venga da una forma d’incapacità, dalla debolezza dell’uomo. Nonostante il mio agnosticismo, ho un profondo bisogno di cercare la verità. E’ forse una prova del fatto che credo al miracolo della vita.

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