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Gianfranco Rosi • Regista

“Nulla può fermare queste persone che scappano dalla morte”

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- BERLINO 2016: Il regista italiano Gianfranco Rosi ci parla del suo nuovo film documentario sulla tragedia dei migranti a Lampedusa, Fuocoammare, Orso d'oro del miglior film alla Berlinale

Gianfranco Rosi  • Regista

Dopo gli applausi al 66° Festival di Berlino, dove è stato presentato in concorso, Fuocoammare [+leggi anche:
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intervista: Gianfranco Rosi
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, il nuovo, intenso documentario di Gianfranco Rosi sulla tragedia dei migranti a Lampedusa arriva nelle sale italiane il 18 febbraio. Il film, cui è stato assegnato un Nastro d’argento speciale dai giornalisti cinematografici italiani del SNGCI perché espressione di un “cinema che richiama il mondo alle proprie responsabilità”, racconta la vita degli abitanti di Lampedusa – in particolare di un bambino, Samuele – e quella dei migranti che vi sbarcano a migliaia, come due universi paralleli che non si incontrano mai.

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Cineuropa: Ha mai avuto la tentazione, durante le riprese, di trovare il modo per far incontrare questi due mondi?
Gianfranco Rosi:
No, perché filmo sempre quello che accade nella realtà e sarebbe stato ipocrita innestare nel film delle finte interazioni che non c’erano. Uno dei pochi momenti in cui si crea un contatto è quando Samuele scarroccia con la sua barchetta e si avvicina alle motovedette della guardia costiera, ma era assolutamente imprevisto. Tutte le scene del film sono nate un po’ per caso, un po’ per magia. La realtà è sempre più emozionante delle cose pensate.

Quando e come ha deciso di bilanciare i due aspetti, quello della cronaca e quello della vita dei lampedusani?
Durante il montaggio, ma mentre giravo ho sempre tenuto separati tre momenti. C’è prima il racconto dell’isola, del suo vuoto e dei personaggi che ho scelto fin dall’inizio come compagni di questa avventura. Ho voluto raccontare l’isola come un elemento a sé, perché così è, c’è una separazione reale tra il quotidiano della gente e il mondo dei migranti. Poi c’è il centro di accoglienza, cui ho avuto libero accesso. Poi ancora gli sbarchi, i viaggi sulla nave Fulgosi, dove ho incontrato la tragedia. In tutto, 80 ore di girato. Quando abbiamo iniziato il montaggio sapevo che l’elemento chiave era la storia di Samuele, che con il suo “occhio pigro” si è rivelato una metafora dello sguardo pigro di noi occidentali verso i migranti. Rispetto ai miei film precedenti, qui c’è un arco narrativo più lungo, seguiamo un personaggio passare per vari stadi. E i cambiamenti di Samuele sono stati anche i miei nel racconto di Lampedusa.

Qual è stata la prima differenza che ha trovato tra quello che si racconta sui giornali e la realtà di Lampedusa?
I media arrivano sul luogo solo quando c’è una tragedia in atto. Quando sono arrivato io, invece, tra ottobre e novembre del 2014, c’era una dimensione di assenza perché il centro era chiuso per lavori, non c’era quell’invasione di migranti di cui si parla solitamente, questo mi ha permesso di entrare in contatto con gli isolani. C’è da dire che negli anni sono cambiate molto le modalità degli sbarchi. Un tempo, prima delle operazioni Mare Nostrum, Frontex, Triton, i barconi arrivavano direttamente sull’isola. Ora la frontiera si è spostata, i barconi vengono intercettati in mare aperto. E’ cominciata così una nuova fase per Lampedusa, si è creata una distanza tra gli isolani e i migranti. C’è lo sbarco sul molo, l’accoglienza, il pullman che li porta nel centro; nessuno scambio con gli abitanti.

Nel centro di accoglienza, a un certo punto vediamo un migrante recitare una sorta di preghiera grazie alla quale per la prima volta nel film sentiamo la voce e conosciamo l’odissea di queste persone. Come è nato quel momento?
Ho avuto la fortuna di incontrare questi nigeriani, e che loro si siano aperti e mi abbiano fatto entrare nella loro stanza. C’era una sorta di gospel di sottofondo e poi ognuno di loro raccontava qualcosa del viaggio, più che una preghiera era un ringraziamento per essere arrivati a Lampedusa. Una volta che sono riuscito a filmare quel momento non potevo aggiungere altro, perché quella storia raccontava tutto.

Il film non risparmia immagini molto crude. Quando se l’è trovate davanti, che cosa l’ha colpita di più?
Quando sono arrivato con la barca su quello che sembrava uno dei tanti trasbordi – ne ho seguiti tanti, sono stato più di 40 giorni in mare – la cosa che mi ha colpito è stato vedere quei corpi agonizzanti davanti a me, il rumore dei loro respiri. Quando la tragedia mi si è palesata nella stiva, ho sentito il dovere di entrare e documentare, ma non è stata una scelta facile. Dopo quel momento lì ho deciso che il film doveva chiudersi e di montare con quello che avevo. Non avevo più la forza di girare.

Che cosa pensa della chiusura delle frontiere?
Penso che sia una cosa tragica. Ma quello che mi fa più paura è la chiusura mentale, e questo lo sento molto tra le persone. Far crollare l’idea di Schengen è una cosa spaventosa, anche perché nulla può fermare queste persone che scappano dalla morte. Chiesi al gruppo di nigeriani che cosa li spingeva a imbarcarsi, dissi loro “you might die”… E loro mi risposero che la chiave era proprio in quel “might”: lì da dove erano partiti, invece, la morte era una certezza.

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