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Steve McQueen • Regista

L’intimità e la distanza

di 

- Incontro a Parigi con un sorprendente regista inglese, che viene dal mondo dell'arte contemporanea e si è lanciato nel cinema di finzione con originalità e una forza straordinaria

Nato a Londra nel 1969, Steve McQueen è diventato in una decina di anni una figura di spicco della videoarte contemporanea internazionale, collezionando premi e riconoscimenti. Abbiamo incontrato a Parigi, negli uffici di MK2, distributore francese di Hunger [+leggi anche:
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Cineuropa: Quando ha sentito parlare per la prima volta dello sciopero della fame di Bobby Sands?
Steve McQueen: Avevo undici anni e a quell'età l'idea che qualcuno smettesse volontariamente di mangiare mi sembrava molto strana. Ogni sera, vedevo in televisione l'immagine di Bobby Sands e il numero dei giorni di digiuno cresceva. Fu quello un anno ricco di emozioni con le sommosse di Brixton e le mie prospettive si aprirono proprio in quel momento.

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Perché ha scelto questo soggetto per il suo primo lungometraggio?
Per me, è l'evento più importante avvenuto nel Regno Unito da 27 anni a questa parte e situazioni del genere ancora si ripetono oggi. Ma ciò che mi interessava era la condizione umana, più che il contesto politico. Volevo esplorare questa impressione forte che avevo avuto all'epoca, saperne di più, e mi sembrava che fosse un soggetto cinematografico valido. Non ho deciso di fare un film per trovare un pubblico più ampio rispetto a quello che segue la mia arte, ma perché questo tema richiedeva un approccio narrativo complesso.

Che tipo di ricerche ha fatto per scrivere la sceneggiatura?
Con il mio co-sceneggiatore Enda Walsh, ne abbiamo fatte tante: abbiamo visionato gli archivi e siamo andati a Belfast a parlare con gli ex detenuti. Tutto questo era necessario per ritrovare l'atmosfera cupa dell'inizio degli anni '80. Le interviste erano essenziali poiché al di là dell'evento storico, volevo entrare nel dettaglio: pioveva quel giorno? Che tipo di pioggia era? Dettagli che, in quanto artista visivo, mi permettono di entrare meglio in contatto con la trama.

Perché ha costruito una struttura narrativa così insolita, con la comparsa tardiva del personaggio principale?
Ciò che conta è come si racconta una storia. Per quanto mi riguarda, il lavoro visivo stimola la creazione narrativa. Non sempre c'è bisogno del "c'era una volta", si può fare diversamente, fermarsi dove si vuole. Basta che le immagini e il racconto arrivino a una conclusione, in un modo o nell'altro. E' come utilizzare la cinepresa come un'impronta digitale, è come bendare qualcuno, spingerlo in una stanza e fargli indovinare come uscirne. Lo spettatore ricostruisce la trama da solo, poco per volta, grazie a ciò che sente. L'unica cosa che puoi fare nel campo della regia cinematografica o della narrazione più tradizionali, è giocare sulla forma. Non la si può creare perché già esiste, ma la si può sovvertire.

Il ritmo del film è notevole.
Avevo in mente questa idea: quando risali un fiume, cominci a seguire la corrente, il paesaggio scorre, e poco a poco ti diventa familiare. Poi arrivi alle rapide, dove la realtà è capovolta. Non ti senti più sicuro rispetto all'ambiente che ti circonda e hai bisogno di ritrovare la posizione, ma ogni volta che lo fai, vieni capovolto. La terza parte è la cascata, la sensazione di perdita di peso. Conoscevo tutti i contrasti e i contorni del film, ma come chi ha in testa una melodia e non sa scriverla. E' con questo spirito che ho lavorato con il mio co-sceneggiatore Enda Walsh.

Perché ha girato in piano sequenza il lunghissimo dialogo tra Bobby Sands e il prete?
Volevamo offrire allo spettatore una conversazione completa e profonda sulle ragioni del vivere e del morire. Non abbiamo tagliato niente, è come un dibattito cui si assiste dall'esterno. Perché i due personaggi vogliono la stessa cosa, ma in modo diverso. Fino ad allora, il film conta pochissimi dialoghi e questo momento arriva un po' come una seduta di psicanalisi, un'ondata d'acqua in un ambiente che ne era privo.

Che tipo di lavoro ha fatto sullo stile visivo, molto forte, del film?
Più che l'inquadratura, è la luce che mi interessa, perché permette quasi di sentire i muri con la punta delle dita, la loro grana, e può accentuare il senso di pesantezza. Il lavoro con la luce naturale è stato appassionante, una vera sfida per me, poiché la cornice del film somiglia molto a un castello o a un monastero, con una sola finestra come fonte luminosa.

La singolarità e il carattere "rivoluzionario" del suo film sono voluti o è una semplice espressione della sua natura d'artista?
Non ero consapevole di fare qualcosa di radicalmente diverso, altrimenti non l'avrei fatto, probabilmente. Non faccio nulla di diverso solo perché è diverso, ma perché è necessario al film, perché serve ad esprimere una storia estrema. Per tornare a quella lunga scena di dialogo, l'ho girata così perché se avessi usato campo e controcampo, i personaggi avrebbero parlato agli spettatori. Volevo invece che questi due uomini parlassero tra di loro, in modo molto intimo. Allo stesso tempo, non volevo che i loro volti fossero troppo visibili, volevo che assomigliassero più a delle sagome. In questo modo, gli occhi degli spettatori si fanno più attenti e le orecchie più concentrate: capiscono che sono quasi degli intrusi in quella stanza. Questa dinamica dell'intimità e della distanza rende la scena molto forte.

Il finanziamento del film è stato facile?
Siamo stati fortunati perché abbiamo girato in Irlanda del Nord, ma siamo stati finanziati da Irlanda del Nord, Irlanda del Sud, Galles e Inghilterra. Tante fonti di finanziamento non sarebbero state possibili se non avessimo fatto le riprese a Belfast. Abbiamo girato in tre settimane e mezza (con una pausa di due mesi e mezzo, tempo che Michael Fassbender dimagrisse). Sembra molto poco, ma non lo sapevo. D'altronde, i registi che si lamentano quando invece hanno la fortuna di poter girare dovrebbero essere eliminati.

Che tipo di cinema le piace?
Zéro de conduite di Jean Vigo significa molto per me. Andavo molto al cinema e ho visto tutti i classici. Ma quando penso a come girare una scena, non penso a Fellini, Scorsese o Spielberg, ma a quello che è meglio per me.

Ripeterà l'esperienza da regista di film?
Non lo so. Lo spero, ma non c'è fretta. Il mio prossimo lavoro sarà presentato alla Biennale di Venezia da giugno a novembre prossimi.

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