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Nabil Ayouch • Regista

“Non pensare alle vittime in modo unilaterale”

di 

- Con God's Horses, vincitore di due premi a Namur, il regista Nabil Ayouch risale alle origini degli attentati che hanno colpito Casablanca nel maggio 2003.

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intervista: Nabil Ayouch
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, vincitore di due premi a Namur, il regista Nabil Ayouch risale alle origini degli attentati che hanno colpito Casablanca nel maggio 2003.

Cineuropa: Come si sono svolte le riprese nella bidonville?
Nabil Ayouch: Era fondamentale rispettare il quartiere e la sua popolazione. Abbiamo cominciato raccontando la storia del film agli abitanti. Era importante parlare con loro, dir loro quale film volevamo fare e in che modo, quale sarebbe stato il nostro punto di vista. Abbiamo spiegato che non volevamo fare di questi ragazzi dei supereroi, che non avremmo perdonato l'imperdonabile, ma che era importante mettere le facce, le storie di questi ragazzi divenuti kamikaze. Anche se è evidente che queste persone vivono ai margini e sono stigmatizzate dalla società, con il film abbiamo contribuito all'economia della bidonville, sia costruendo le scenografie che assumendo assistenti e figuranti. Abbiamo potuto stabilire un rapporto di fiducia con gli abitanti. Non è stato sempre facile, la miseria porta violenza. Alcune notti sono state molto difficili per la troupe. La maggior parte degli abitanti era felice della nostra presenza, ma vi era una minoranza, guidata dai salafisti, che era palesemente scontenta e ce lo ha fatto sentire.

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Il film colpisce per la presa di distanza, per l'assenza di giudizio sbrigativo e definitivo sul percorso di questi giovani kamikaze.
L'obiettivo non era giudicare questi ragazzi, loro stessi sono carne da macello. Sono strumentalizzati dal contesto economico, dai testi. Anche loro sono vittime. Sarebbe troppo facile giudicarli. L’idea era di dare delle chiavi di lettura. Non si diventa kamikaze solo perché si è poveri, e non si nasce kamikaze, lo si diventa.

Il suo film mostra una società che non lascia molto spazio all'amore, tantomeno all'intimità.
In questa società, il rapporto con il sesso è completamente sbilanciato. I giovani uomini e le giovani donne non hanno diritto all'intimità al di fuori del matrimonio. L'amore è tenuto a distanza, l'amore è impossibile. Ora, l'amore è l'unica cosa che avrebbe potuto salvarli, come suggerisce la relazione proibita tra Yachine e Ghislaine. La gente non è libera di amare, né di essere amata. In tal modo, si impara la sessualità o fra donne o fra uomini. Di qui, una sorta di sedute d'iniziazione che sfociano talvolta in violenza.

Perché raccontare questa storia oggi?
Non ho fatto questo film nell'urgenza, non è così che lavoro. Mi sono preso del tempo per pensare al modo di affrontare il soggetto di questi giovani che avevano commesso l'orrore e che abitavano a pochi chilometri da casa mia. L'indomani del 16 maggio 2003, feci un documentario di una quindicina di minuti sulle vittime degli attentati. Mi ero un po' sbagliato, avevo pensato alle vittime in modo unilaterale. Ho lavorato sul posto, con gli abitanti, le associazioni, i sociologi. Non è possibile dire qualsiasi cosa sulla religione. L'idea non era stigmatizzare l’Islam. La distanza era fondamentale per non essere pesanti. Ho cominciato la scrittura della sceneggiatura prima di scoprire il libro di Mahi Binebine. Vi ho trovato un punto di vista che somigliava a quello che volevo adottare, vi ho trovato storie umane, corpi, volti. E' importante oggi che il film circoli nel mondo arabo. Credo nell'intelligenza del pubblico, se vi si appella con rispetto, con il linguaggio adatto. Il film è venduto nel mondo arabo e uscirà in Marocco a gennaio, in contemporanea con l'Europa.

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