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Yolande Moreau • Regista

Henri: “un film sul risveglio”

di 

- Cinergie incontra Yolande Moreau che racconta Henri, il suo secondo lungometraggio, a lungo applaudito alla Quinzaine des Réalisateurs 2013

Yolande Moreau • Regista

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, il secondo lungometraggio di Yolande Moreau ha ricevuto lunghi applausi sia alla proiezione del mattino, riservata in primo luogo agli addetti ai lavori, che la sera del 25 maggio, alla chiusura della Quinzaine des Réalisateurs 2013. La toccante storia di un incontro insolito tra Rosette, una ragazza con un piccolo ritardo mentale, e Henri, proprietario di un bar che la morte della moglie ha lasciato più disorientato che mai, ha sedotto e fortemente commosso. È sulla spiaggia della Quinzaine che incontriamo la regista, fresca di trucco per una serie di foto e tutt’orecchi e sorrisi, come sua abitudine.

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Cinergie: parliamo della sceneggiatura. Lei dà molta importanza a quello che scrive e l’esperienza della solitudine non sembra scoraggiarla. Qual è il suo segreto?
Yolande Moreau: Scrivere è difficile, soprattutto all’inizio. Allora bisogna tenere duro, anche se è doloroso. Poi, una volta partiti, l’esperienza diventa eccitante, e tutto ci riporta alla sceneggiatura. A mano a mano, le cose più insensate si legano le une alle altre, cominciano a esistere, e in quel momento diventa appassionante. Ma all’inizio non è così. Le prime frasi che uno scrive sono un brutto momento che deve passare. Prima, scrivevo a matita per poter cancellare e, soprattutto, facevo in modo che nessuno le vedesse. Per questo film ho lavorato al computer. Avevo un po’ paura perché di colpo sparisce tutto e diventa tutto bianco e, di conseguenza, uno non osa cancellare, ma alla fine è anche una cosa buona.

Amo la scrittura perché è una attività solitaria, ma è anche un’attività di sogno. Per esempio, qui, sapevo che volevo parlare delle gare di piccioni viaggiatori, allora ho visitato alcuni siti internet, ho guardato video sui piccioni, mi sono immersa nei libri. Ho sognato nell’imparare che i piccioni sono uno degli animali più fedeli. E io amo sognare. D’altronde all’inizio mi vedevo nella parte di Rosette. Mi piaceva fare la parte di una persona un po’ stramba, di una donna un po’ spostata. Ma col passare del tempo – sono molto lenta a scrivere – mi sono resa conto di essere troppo vecchia per quel personaggio e ho scelto Candy.

Perché i nomi Rosette e Henri? Sono un riferimento alla sua storia personale, alla sua immaginazione?
Henri è un nome che mi piace molto. Certo, il personaggio è italiano e non è un nome molto italiano, ma mi sono detta che non era grave, e poi Enrique non funzionava. Quanto a Rosette, l’idea mi è venuta con la canzoncina a metà del film Rosa, Rosa, Rosam. E soltanto dopo mi sono resa conto che nella sceneggiatura di Rose ce ne sono a bizzeffe. Avrei potuto trovare qualcos’altro, un altro nome, perché a volte si parte da un’idea che poi evolve col procedere della scrittura, ma Rosette mi piaceva molto.

Nel suo primo film dice che “ciò che è bello delle storie d’amore è l’inizio”. È per questo che in questo film non mostra la fine?
Ah, la citazione del mio piccolo spettacolo! In effetti qui la storia d’amore per me è secondaria. Del resto anche ne Quand la Mer monte. Volevo soprattutto mostrare quanto sia importante, quando si ha il mal di vivere, aggrapparsi di tanto in tanto a una storia d’amore. Avevo voglia di parlare di qualcuno che fosse solo, spento, rassegnato, di qualcuno più vecchio di Rosette. Arrivare a lei, invece, attraverso il suo personaggio, volevo parlare di una solitudine che sogna la normalità, che sogna di vivere. Henri dorme incessantemente, parla pochissimo, lei invece viene risvegliata. È un film sul risveglio. L’irruzione di Rosette nella vita di Henri fa sì che all’improvviso vi sia un piccolo scatto che aveva dimenticato, una speranza di vita, un qualcosa di gioioso, una piccola luce. Rosette riporta Henri alla comunicazione, mentre tutta la parte iniziale del film si fonda sull’incomunicabilità esistente tra lui e sua moglie, interpretata da Lio. La differenza li riavvicina e riporta quest’uomo un po’ alcolizzato a se stesso. Il mondo di normalità e lo sguardo di Rosette sulla vita sono molto meno lontani di quanto si crede. Questo film non mostra nient’altro che questo. È fragile. Ma è la vita a essere fragile a ogni modo!

Henri è il primo film che ha realizzato da sola. Cosa ha temuto e imparato della tecnica cinematografica?La tecnica, in fin dei conti, non è che uno dei molteplici aspetti del cinema. Avevo molta paura di prendere in mano la macchina da presa, questo è certo, perché non la conoscevo per niente. Ma è un lavoro di squadra, ci si appoggia sul savoir-faire degli altri! Il lavoro con tutti i tecnici è stato meraviglioso. E soprattutto c’è stata mia figlia, Eloise, che fa la segretaria di edizione e che mi ha aiutato molto. È lei che mi ha fatto prendere familiarità con il linguaggio tecnico, la selezione delle riprese… Per la fotografia volevo prendere qualcuno che sapesse dove mettere la macchina da presa e che la comprendesse bene. Non avevo fatto uno story-board  perché non so disegnare, ma con Philippe Goubert abbiamo stabilito insieme la suddivisione delle scene. In effetti la regia è una questione d’istinto, di come vuoi raccontare una cosa. D’altronde è questo che mi diceva Philippe: “Come ti immagini la scena?”. Ora, io ho molte cose nella testa, una messa in scena, dei luoghi. Finché si scrive, non si sanno i luoghi precisi, ma si inventano, si visualizzano gli spostamenti. Soltanto dopo si realizzano i veri spostamenti a partire dai sopralluoghi. La messa in scena è un vero lavoro di preparazione. L’ho imparato facendo teatro, che c’è una distanza giusta per parlare a una persona, che bisogna sapere come si vuole vedere gli attori spostarsi sulla scena, farli incrociare e così via. È da tanto che faccio questo mestiere, dall’adolescenza, dunque per fare questo film si trattava di mobilitare tutta la mia esperienza e, soprattutto, i miei sensi perché, come dicevo, è prima di tutto una questione d’istinto.

Come ha diretto gli attori?
E' diverso per ogni attore. Ma nel complesso, credo di fare delle richieste abbastanza precise. Spiego con calma il modo in cui immagino la scena e poi lascio fare agli attori. Ciò non significa che non li sgridi se non fanno quello che voglio! (ride) Personalmente mi piace molto l’improvvisazione, e anche a Jackie Berroyer, ma qui non ce n’è tanta, il film è dettagliatamente sceneggiato, perché ne conosco anche i pericoli. Ci si allontana da quello che si vuole raccontare. Il che non impedisce che a volte possano anche manifestarsi delle cose geniali, dei piccoli incidenti che trovo magnifici. Per esempio, con Henri, adoro quando Rosette costruisce la barchetta di carta che se ne va sull’acqua. Poco dopo arriva un’onda che si porta via le scarpe. È questo che si è preservato.

Tutti gli attori erano molto concentrati, erano davvero nel personaggio. E poi, non erano di quelli torturati, per cui la sera riuscivano a distaccarsi facilmente dal personaggio. È quello che ho notato subito quando li ho incontrati, Candy da Louise-Michel [+leggi anche:
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e Pippo in un bistrot dove abbiamo parlato per ore, che hanno entrambi una grande presenza scenica. Interpretano con grande profondità e non cercano di fare quello che per una regista è superdifficile. Con Candy ho fatto qualche prova, ma non volevo usarle tanto e, d’istinto, lei ha capito bene in che direzione bisognava andare. Con Pippo, avrei proprio voluto prima fare le prove, perché è italiano, ma non ne aveva il tempo, era molto occupato con il teatro. In effetti temevo che non capisse tutto, e ne ho appena avuto conferma: il personale della Quinzaine gli ha dato un cartoncino con la sua foto e poteva scriverci quello che voleva. Allora gli altri gli hanno detto che doveva mettere “pippe a qualsiasi ora” visto che è una cosa del film e lui ha risposto: “ma che significa?”. Sono scoppiati tutti a ridere, non aveva capito lo scherzo. Meglio tardi che mai…

Tra attori e tecnici, le piace lavorare con persone che conosce. La sua squadra è come una piccola famiglia?
Sono abbastanza fedele alle amicizia e alle scelte d’istinto, credo. Anche troppo fedele! Per esempio adoro quello che fa Wim Willaert e sono stata felicissima di ritrovarlo in questo film. Di Lio, sono una fan sfegatata. Serge (Larivière) adesso fa parte della squadra di Kervern e Délépine… Ci sono anche Jackie (Berroyer), Simon (André)… La vita va avanti e gli incontri non si fermano mai. È appassionante!

Ama molto il suo paese d’origine, il Belgio. Ha voglia adesso di fare film su qualche altra cosa?
Non lo so. Per il momento mi sento a mio agio con le cose che mi sono familiari. Ammiro i cineasti che sanno parlare del Vietnam senza averci messo piede. È un altro modo di lavorare. E lo trovo anche ottimo, ma non fa per me. Middlekerke, quella la conosco. Mia nonna è nata lì, allora mi piace tornarci. Viveva in un piccolo bar con la fattoria, dei maiali. Adesso là c’è un Tonton Tapis, un negozio di tappeti, hanno abbattuto tutto, sono rimasti solo alcuni edifici… Avevo voglia di metterci un po’ di poesia. Anche se sono anni che abito in Normandia, ho sempre voglia di andare in Belgio. È strano perché qui mi trovo bene, è molto bello e ho gli amici. Ma se si tratta di raccontare una storia, vengo subito attirata dal Belgio. Vedremo con il prossimo film! Qui ho incontrato persone della regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra che mi dicevano: “Vieni da noi”. Ma io ho risposto loro: “Non lo so, non è casa mia”.

Traduzione di Valentina Gravagnuolo 

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(Tradotto dal francese)

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