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Régis Wargnier • Regista

“La risposta è la cultura”

di 

- Abbiamo incontrato il regista premio Oscar Régis Wargnier al Bif&st di Bari, dove ha presentato in concorso internazionale il suo ultimo, emozionante film The Gate

Régis Wargnier  • Regista

“Devo la vita a un uomo che ne ha uccisi a migliaia: un assassino”: comincia con queste parole il racconto di François Bizot, etnologo francese, catturato e imprigionato ingiustamente in Cambogia, a inizio anni ’70, dai Khmer Rossi che lo accusavano di essere una spia della CIA. A portare questa storia vera sul grande schermo è Régis Wargnier – regista premio Oscar per Indocina nel 1993 – nel suo ultimo, emozionante film Le temps des aveux (The Gate) [+leggi anche:
trailer
intervista: Régis Wargnier
scheda film
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, selezionato in concorso al 6° Bif&st - Bari International Film Festival (21-28 marzo 2015). Per Bizot (incarnato splendidamente da Raphaël Personnaz), l’unica speranza di sopravvivere è convincere della propria innocenza Douch (Kompheak Phoeung), il responsabile del campo dove è detenuto. Al di là dei ruoli che la Storia ha assegnato loro, tra i due giovani uomini – la vittima e il carnefice – nasce un legame indefinibile. E quando anni più tardi sarà chiamato a testimoniare sui crimini umani di Douch, Bizot si ritroverà diviso in due.  

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Cineuropa: Pur nella condizione estrema di una prigionia in mezzo alla giungla, il suo film non tralascia di raccontare l’umanità dei carcerieri. Come è arrivato a questo?
Régis Wargnier: I carnefici sono esseri umani, se si dimentica questo non si capisce come succedano certe cose e non si trovano soluzioni al fanatismo. Oggi è lo stesso con gli integralisti islamici, il fanatismo ideologico trasforma la gente in carnefice. Per me è un enigma, non ho trovato una risposta ma ho cercato di sentire qualcosa nei momenti in cui i due protagonisti sono vicini, come quando recitano la poesia in francese. Quello che ha salvato Bizot è che lui conosceva la lingua e la cultura khmer, e Douch conosceva la lingua e la cultura francese. Forse la risposta è la cultura. Tanta gente ignorante non pensa, non ha l’anima per cambiare e migliorarsi. I ragazzi ritratti nel film erano giovanissimi, erano contadini analfabeti. Il loro paese, che non era in guerra, è stato bombardato per un anno, e c’era il Vietnam alla frontiera. Era facile per un khmer convincere questi contadini a unirsi a loro, in nome della giustizia. 

The Gate è tratto da una storia vera. Come ne è venuto a conoscenza?
Mio padre era un militare, e la guerra coloniale francese ha sempre fatto parte della mia vita e della mia sensibilità. Ho letto il libro di François Bizot (“Il cancello”) quindici anni fa, e ho pensato subito che dovesse diventare un film. Ma quando ho incontrato l’autore, lui non era pronto a diventare un personaggio di cinema, già scrivendo il libro aveva rivissuto emozioni troppo dolorose. Poi, molti anni dopo, Douch è stato arrestato ed è diventato il primo khmer ad essere giudicato per crimini contro l’umanità. Bizot pensava fosse morto, era sconvolto perché non sapeva se tornare in Cambogia e rivedere il suo carceriere o restare in Francia. L’ho rivisto in quel momento e gli ho detto che forse, ora che la storia aveva una prospettiva diversa, era il momento giusto per farne un film. Mi mancava solo il terzo elemento per trattare cinematograficamente questa storia: l’incontro tra Bizot e Douch prima del processo a Phnom Penh. 

Quale stile e linguaggio ha scelto per trattare questa storia?
Quando si racconta una storia vera, bisogna avere un rispetto totale. Ho lavorato alla sceneggiatura con il migliore amico dell’autore, che così si è sentito protetto. Poi preparando il film, abbiamo deciso di rinunciare alla musica. Io amo la musica al cinema, ma qui non ce n’era una adatta. Abbiamo quindi lavorato sui suoni, che sono diventati molto importanti: le voci, la lingua khmer, i rumori della foresta, la città vuota. Ho preferito avere sempre due camere, per mantenere un’energia costante nella recitazione. Questo era utile soprattutto per l’interprete di Douch, Kompheak Phoeung. In realtà è un professore di letteratura francese, non aveva mai recitato prima, ma era stato il traduttore del vero Douch in tribunale: un segno del destino. 

E Raphaël Personnaz? Perché proprio lui nel ruolo di Bizot?
Il produttore ha provato a convincermi a impiegare un attore più conosciuto, ma io volevo un attore sui 30 anni, come Bizot all’epoca, così come il suo fisico europeo del Nord e gli occhi chiari. Proprio perché Personnaz è meno noto, quando lo vediamo sullo schermo crediamo più facilmente a lui. Volevo essere il più possibile vicino alla realtà. Lui è stato bravissimo, ha perso peso, ha imparato la lingua khmer, ha trascorso molto tempo in Asia, nella foresta, in condizioni difficili. Il posto che abbiamo scelto per le riprese si trova a due ore e mezza di macchina dal sito archeologico di Angkor, volevo il silenzio assoluto. Non avevamo alcun comfort, ma eravamo tutti molto felici di vivere questa esperienza.

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