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Elina Psykou • Regista

“È un gioco di simboli e metafore”

di 

- Abbiamo incontrato la regista greca Elina Psykou, dopo la prima mondiale al Festival di Tribeca di Son of Sofia, vincitore come Miglior film straniero

Elina Psykou  • Regista

A quattro anni di distanza dal suo film d’esordio, The Eternal Return of Antonis Paraskevas [+leggi anche:
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, Elina Psykou torna ad analizzare la società greca con il suo secondo lungometraggio, intitolato Son of Sofia [+leggi anche:
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. Una favola astratta ambientata nel 2004 durante i Giochi olimpici di Atene, nella quale la cineasta descrive la perdita dell’innocenza del suo eroe, sullo sfondo del collasso delle illusioni del paese. Cineuropa ha avuto la fortuna di incontrarla al Tribeca Film Festival poco dopo la proiezione in anteprima mondiale di Son of Sofia, vincitore come Miglior film straniero per la sezione internazionale. 

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Cineuropa: Come descriverebbe il suo film? Vi si ritrovano elementi realistici e fantastici. Secondo lei lo spettatore si focalizzerà di più sulla vicenda individuale o sull’ambientazione sociale nella quale la storia si svolge?
Elina Psykou: Mi piace esplorare il realismo attraverso la fantasia, quindi direi che il film appartiene al genere del realismo magico. Lo scenario sociale viene dopo la vicenda personale, per me rappresenta uno strumento nelle mani del pubblico, e non la storia stessa.

Come nel suo film d’esordio, anche in Son of Sofia prosegue con l’analisi della condizione sociale greca. Perché sente l’urgenza di tali riferimenti?
Voglio calare le mie storie in uno specifico sfondo sociopolitico. In questo modo, ciò che è personale diventa universale e viceversa. Ma le mie storie non nascono in questo modo: prima di tutto emergono i personaggi, mentre il periodo storico viene dopo. Parto con in testa la struttura della trama principale, e poi cerco di collocarla in un contesto. I riferimenti sociali danno agli spettatori un diverso punto di vista, li aiutano a comprendere e a sentite i personaggi. Mi piace usare un gioco di simboli e metafore.

Ambientando la storia durante i Giochi olimpici del 2004, volava porre l’accento sui segnali sociali che allora anticipavano la situazione odierna o piuttosto mostrare l’apice prima della caduta?
Trovo che le Olimpiadi siano uno scenario interessante nel quale ambientare un film. Il 2004 rimanda ad un’era innocente quanto lo è Misha, il protagonista. Ciò che accade dopo questo periodo è qualcosa di inedito e molto duro per la Grecia: si tratta del genere di crisi che anche Misha si trova ad affrontare quando arriva ad Atene. Il paese e il giovane protagonista vivono in un’illusione. Un’illusione destinata a crollare presto. Lo sfondo delle Olimpiadi non è che una metafora per esprimere la fine dell’infanzia, e con essa delle illusioni e delle favole, rimpiazzate dal raggiungimento della maturità, qualsiasi cosa questa comporti.

Perché ha deciso di rappresentare i migranti provenienti dall’Europa dell’est?
Anzitutto per motivi di realismo, dal momento che in Grecia la maggior parte dei migranti proviene da questi paesi. In secondo luogo, avevo l’impressione che la cultura e la storia sociopolitica dell’est Europa potessero condurmi su un sentiero interessante dal punto di vista cinematografico. Ho quindi svolto delle ricerche sulle canzoni, sul contesto comunista, sui Giochi olimpici e sui programmi televisivi dell’epoca. Alla fine ho usato molti elementi regionali tradizionali. 

Secondo lei, la questione della cosiddetta “identità nazionale” ha assunto un’importanza primaria ai giorni nostri?
Se il film ha un tema centrale, è proprio quello della formazione identitaria. Parte di questa identità coincide con l’appartenenza nazionale, insieme a quella sessuale, linguistica, religiosa e politica. Certamente, l’identità nazionale oggi è molto importante, tanto quanto quella religiosa o politica. Viviamo in un periodo di transizione, nel quale questi concetti si confondono. Siamo europei, greci, cristiani, musulmani, di sinistra, di destra, omosessuali, eterosessuali, o siamo semplicemente essere umani?

Uno dei personaggi principali era una star televisiva all’epoca della dittatura: pensa che la televisione abbia davvero plasmato la realtà sociale greca?
La televisione è una mia ossessione personale e mi piace inserirla in gran parte delle mie opere. Ovviamente, non penso che la TV sia il “male”, ma credo fortemente che in Grecia se ne sia fatto un uso sbagliato. Fin dagli albori del mezzo, quando venivano utilizzati per scopi ideologici, fino ad oggi, i programmi televisivi sono sempre stati di bassa qualità. Quindi sì, credo che la televisione greca debba assumersi una dose parte di responsabilità per l’attuale condizione sociale del nostro paese. Abbiamo guardato talmente tanti concorsi di bellezza, soap opera e telegiornali scadenti, che ci sembra normale sognare un’esistenza fondata su questo genere di elementi. 

Son of Sofia parteciperà ad altri festival prossimamente? Quali sono i suoi progetti per l’immediato futuro?
Molti festival seguiranno quello di Tribeca, ma purtroppo per ora possiamo annunciare soltanto il Jeonju International Film Festival, in Corea del Sud, dove il film sarà in concorso. Per quanto riguarda i prossimi progetti, mi trovo in fase di sviluppo con un nuovo documentario dal titolo To Live and Die in Europe, che ha già ottenuto il sostegno di Creative Europe e di Eave, e sto lavorando alla sceneggiatura del mio terzo lungometraggio.

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(Tradotto dall'inglese)

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