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TRIESTE 2024

Ludovica Fales • Regista di Lala

“I giovani rom si pongono domande sulla loro rappresentazione, ma questo dibattito è completamente ignorato dai media”

di 

- La regista ci parla del suo documentario che, mischiando realtà e verosimiglianza, racconta la lotta di una ragazza rom per veder riconosciuta la propria identità

Ludovica Fales • Regista di Lala

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scheda film
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, vincitore del premio del pubblico al 41mo Bellaria Film Festival, la regista italiana residente a Parigi Ludovica Fales indaga le zone grigie delle leggi che regolano l’ottenimento della cittadinanza, attraverso la storia di una giovane rom e di tanti adolescenti come lei che, nonostante siano nati in Italia, non si vedono riconosciuto alcun diritto al compimento dei 18 anni. Coprodotto con la Slovenia e ora in gara per il Premio Corso Salani al 35mo Trieste Film Festival, questo documentario ibrido che mischia realtà e messa in scena è distribuito nelle sale italiane il 25 gennaio dalla stessa società di produzione Transmedia.

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Cineuropa: Ci sono voluti nove anni per realizzare questo film. Come mai una gestazione così lunga?
Ludovica Fales: All’inizio ero molto impaziente, ma poi ho capito che l'attesa ha avuto un senso, anzi è stato quello che in inglese si chiama blessing in disguise, una benedizione sotto mentite spoglie. Tutto è cominciato dal mio incontro con Zaga, la ragazza che si vede all’inizio del film e che poi lo chiude dieci anni dopo. Era iniziato come un documentario tradizionale, volevo parlare delle persone che erano nate in Italia ma non si vedevano riconosciuto il diritto alla cittadinanza. Avevo conosciuto Zaga tramite Antonio, un educatore che lavorava nei campi rom, con lei era scattato un feeling particolare. Poi però le vicende della sua vita hanno fatto sì che Zaga, quando tutte le sue illusioni sono cadute e si è resa conto che non avrebbe mai ottenuto i documenti, abbia deciso di lasciare il paese. È stata una sua decisione personale, impulsiva, quindi a un certo punto il nostro processo si è interrotto.

Il suo progetto di film, quindi, è cambiato.
Ho continuato a tenermi in contatto con Antonio e con tutte le persone che potevano avere notizie di Zaga, perché in realtà speravo davvero di rincontrarla. Sentivo questo fortissimo bisogno di raccontare questa storia perché ero rimasta colpita dalla sua vicenda e quindi, due anni dopo la sua partenza, ho pensato che forse la cosa migliore fosse scrivere un film di finzione. Però non mi sentivo la persona giusta per farlo, non era la mia storia. Così ho pensato di​ chiamare a raccolta un gruppo di giovani con storie simili e, attraverso una serie di improvvisazioni, arrivare al testo del film. Anni dopo però Zaga è ricomparsa. È stato molto emozionante rincontrarsi, così l'abbiamo invitata a entrare nel mondo del film. A quel punto è stato necessario riaprire il processo di scrittura, inserendo nuovamente la parte documentaria.

Il film intende smontare alcuni pregiudizi sulla comunità rom. Che cosa ha imparato lei stessa facendolo?
Quello che sicuramente ho imparato è che ci sono moltissimi modi di essere un giovane rom, ne avevo una visione molto più semplificata. È stato interessante tutto il processo di decolonizzazione anche del mio sguardo. Molte volte siamo consapevoli del nostro privilegio, delle lenti attraverso cui guardiamo le cose, ma poi solo vivendole siamo in grado di capire le implicazioni dei nostri pregiudizi inconsci. Sapevo che la maggior parte dei ragazzi vivevano nei campi, pensavo che solo una minoranza vivesse nelle case: non avevo idea che ci fossero infinite vite possibili e identità multiple dietro l’etichetta rom. Molti di loro provengono da più paesi, sanno più lingue, sono di gruppi diversi, alcuni rom, alcuni sinti, alcuni sono entrambe le cose, alcuni sono italiani da generazioni, altri sono arrivati con la guerra nella ex Jugoslavia, altri più di recente. C’è una ricchezza culturale che racconta la storia dell’Europa, la conoscevo intellettualmente ma non avevo mai toccato con mano cosa volesse dire. Un’altra cosa che mi è piaciuto scoprire è l’esistenza di un dibattito molto forte all’interno di alcuni gruppi di giovani rom: si pongono domande sulla loro rappresentazione e su come dialogare all’interno della loro stessa comunità. Il fatto di sentirsi appartenenti a più paesi e culture apre per loro una serie di interrogativi interessanti e di possibili alleanze con istanze di altre minoranze. Tutto questo dibattito è completamente ignorato dai media.

In Lala si sovrappongono messa in scena e testimonianze reali: una sfida per lo spettatore, che deve orientarsi tra piani narrativi differenti. Ma una sfida vinta, visto che il film è stato premiato proprio dal pubblico a Bellaria.
Mi è stato detto che è un film fuori norma, in senso positivo, perché racconta un personaggio che non viene mai rappresentato al cinema, ossia una giovane donna rom, con il suo corpo e la sua soggettività. È raccontato in un modo che lascia trapelare un insieme di voci e complessità, e pone costantemente allo spettatore la questione di cosa sta guardando, lo pone in uno stato di prossimità e di distanza critica allo stesso tempo, e questa cosa a molte persone è piaciuta. A Bellaria poi c’erano molti giovani, si sono identificati con i loro coetanei, si sono trovati a dover riflettere su ciò che avevano visto: si è creato un movimento dialettico che li ha spinti a sentire e a pensare allo stesso tempo. Credo che questo fatto di raccontare una storia che è tante storie insieme e di raccontarla attraverso approcci diversi, interrogandosi sullo statuto di ciò che si sta guardando, abbia rappresentato un’esperienza diversa e nuova.

Sta già lavorando al suo prossimo progetto?
Lo sto scrivendo. Il mio desiderio è di raccontare la storia di mia nonna, che è stata una rifugiata, e delle persone che ha incontrato durante la sua fuga dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale a causa delle leggi razziali: incontri fortuiti che l’hanno aiutata ad arrivare salva alla fine del suo percorso. È un progetto che parte da un’ispirazione storica ma avrà un elemento contemporaneo. Anche questo sarà un film ibrido, troverà un suo linguaggio.

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