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FILM / RECENSIONI

Panique au Village

di 

- Una brillante trasposizione sul grande schermo di una serie TV per un'opera prima d'animazione belga di grande originalità, presentata fuori concorso al festival di Cannes 2009

Passare dal corto al lungometraggio fa sempre la differenza. Bisogna plasmare la storia sulla durata, adattarvi il suo stile narrativo, sviluppare personaggi dal carattere ben strutturato e, soprattutto, cambiare marcia. Il ritmo infernale dei dieci minuti non può essere mantenuto per oltre un'ora, a costo di far scoppiare la testa allo spettatore. Bisogna trovare un altro ritmo. Stéphane Aubier e Vincent Patar, affiancati dai loro co-sceneggiatori Vincent Tavier e Guillaume Malandrin, hanno lavorato per tre anni sullo script di Panique au Village [+leggi anche:
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scheda film
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, scrivendo, perfezionando la loro storia, le gag, i dialoghi, e dosando accuratamente i vari elementi nel tempo dato. Il film trae grande beneficio da questa cura nella preparazione. La sceneggiatura propone una varietà di tempi, dall'adagio all'allegretto, che i registi gestiscono abilmente sulla durata per creare la fluidità indispensabile alla riuscita del lungometraggio.

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Vi è una storia vera, che va ben al di là di una semplice successione di peripezie comiche. Cow-boy e Indien, bambini molesti e goffi, prendono sostanza. Cheval, il loro fratello maggiore brontolone, da semplice spalla acquisisce una vita propria, personale e persino sentimentale. Uno dei principali apporti del film è l'arrivo in questo universo dei ragazzini di Madame Longrée (la voce è di Jeanne Balibar), adorabile puledra dalla voce sensuale e dai foulard di un'eleganza raffinata, insegnante di pianoforte (il colmo per un ungulato), con la quale Cheval vive un'appassionata e romantica storia d'amore. Anche i personaggi secondari diventano attori veri, sempre più soggetti, piuttosto che oggetti della storia. Janine, ad esempio, dato che Steven è in prigione, sviluppa un lato del suo personaggio, emozioni e azioni impensabili nella serie televisiva.

La grande forza degli autori è di essere riusciti, facendo il film, a conservare il tono generale sviluppato nella serie, rendendolo una vera e propria madeleine di Proust che ci riporta all'innocenza dell'infanzia. Attraverso queste statuine, guardiamo il bambino che gioca. Ci si immagina i riferimenti (genitori, professori, conoscenze) cui si ispira più o meno coscientemente per creare i suoi personaggi. Ci si diverte del suo particolare rapporto con la realtà con, da una parte, logiche semplici ma molto forti, e dall'altra, un'assenza talvolta totale di coerenza. Si diventa partecipi del mondo non semplicistico, non privo di buon senso, del ragazzino in calzoni corti che prende coscienza dell'universo che lo circonda e riproduce, più o meno, quello che percepisce. E così, Indien ordina mattoni su Internet, Steven porta gli animali a mangiare sul suo trattore mentre Gendarme si occupa della circolazione, Cheval va in automobile a prendere gli animali al corso di piano al conservatorio, e la stalla dove i nostri tre eroi vanno a dormire dopo la perdita della loro casa è vista come il dormitorio di una colonia estiva. Sono certamente questi elementi, più che le peripezie della storia, che affascinano e che tengono lo spettatore incollato allo schermo fino alla fine.

Senza prendersi troppo sul serio, gli amici Stéphane Aubier e Vincent Patar sono partiti da un know-how già ben consolidato per sviluppare un concept più ricco e articolato. Inoltre, si sono visibilmente divertiti e sanno rendere lo spettatore pienamente complice di questo divertimento.

fonte: Cinergie

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