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BERLINALE 2013 Concorso / Germania

Gold: il sogno senza ritorno

di 

- Thomas Arslan racconta la corsa all’oro di un gruppo di tedeschi e li immerge, per un pugno di pepite, nell’inferno della celebre "wilderness" americana

Già a Berlino l’anno scorso, la star tedesca Nina Hoss, misteriosa e imperturbabile, progettava in Barbara [+leggi anche:
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di andare a Ovest. Quest’anno, in Gold [+leggi anche:
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di Thomas Arslan, compie finalmente questo viaggio ma nella sua forma quintessenziale: dall’altra parte dell’oceano, a cavallo da una sponda all’altra del Canada, attraverso quella natura selvaggia, superba e infernale chiamata "wilderness", all’epoca della corsa all’oro.

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Arslan, già premiato a Berlino (per Dealer nel 1999) ma per la prima volta selezionato in concorso, tratta qui in maniera piuttosto classica l’immaginario familiare del western, coi suoi treni a vapore, i suoi paesaggi immensi, i suoi immigrati europei infagottati negli abiti di lana e valigia in mano che diventano poco a poco sporchi e laceri come la gente rude che popola i saloon, i suoi polverosi villaggi di pionieri dove ci si ferma per dare da mangiare ai cavalli, e infine le sue pepite, che spesso vediamo nelle mani dei truffatori che le utilizzano come specchietti per le allodole.

Pur misurandosi con un genere nuovo, il regista non rinuncia alla sua predilezione per i consessi di individui dissociati fra di loro e diffidenti gli uni verso gli altri, costretti a coesistere e che si scambiano un minimo sindacale di parole. Qui si tratta di un gruppo di tedeschi, ognuno con una buona ragione per puntare i propri risparmi e le proprie vite sulla prospettiva di trovare l’oro (la più misteriosa resta Hoss, con le sue labbra un po’ increspate, come per mantenere il segreto sul suo passato, e i suoi occhi blu volti verso un orizzonte che possiamo solo immaginare).

E’ questo sogno che li fa andare avanti malgrado le sfortune che si abattono sulla loro strada e che modificano le dinamiche del gruppo, ma una volta sopraggiunti tutti gli incidenti tecnici possibili e immaginabili, è al pericolo di morte che devono far fronte. Portati al loro limite (è difficile trattenere una smorfia di dolore quando si sente il rumore del coltello che taglia una gamba in cancrena), non hanno più ragione per continuare se non quella di non poter tornare indietro. La summenzionata amputazione rappresenta quello che subisce la piccola banda, che perde poco per volta equipaggiamento e membri. Restano solo i più forti, che sono anche quelli partiti con la determinazione di non tornare mai indietro.

Durante il cammino, mano a mano che i personaggi, spogliati di tutto, non hanno più niente nella vita se non questa fuga in avanti, il film, scandito dalle note lunghe e benauguranti di una chitarra elettrica sognante, assume i contorni di un percorso esistenziale che evoca vagamente Dead Man di Jarmusch. E poi, dopo oltre un migliaio di miglia, all’improvviso riemerge qualcosa, dopo che tutto è stato portato via: qualcosa di umano, alla fine. L’ombra della morte è lì, ma lontano, davanti ad essa, c’è una speranza: quella di una vita nuova.  

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(Tradotto dal francese)

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