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BERLINALE 2015 Concorso

The Pearl Button: una madreperla macchiata di sangue

di 

- BERLINO 2015: Il cileno Patricio Guzman dà voce all’acqua che bagna le coste del suo paese magnifico e selvaggio, e formula un "J'accuse" poetico e forte

The Pearl Button: una madreperla macchiata di sangue

E’ alquanto eccezionale che un documentario faccia parte della competizione berlinese, ma The Pearl Button [+leggi anche:
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scheda film
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è di fatto un film eccezionale, un’opera importante, che meritava di riunire tanti sforzi, in Cile come in Europa, giacché il film è stato realizzato in coproduzione con la società spagnola Mediapro e le francesi Atacama Productions e France 3 Cinéma, con il sostegno del CNC francese e France Télévisions, Ciné+, la Radio Televisione svizzera e il canale regionale tedesco WDR.

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Fedele all'ascolto degli elementi naturali su cui si basava l’intera cultura dei Selknams, il popolo nativo americano (oggi decimato) che viveva in armonia con la natura cilena estrema e maestosa, l’affermato documentarista Patricio Guzmán, 73 anni, parte dall’idea che l’acqua ha una memoria e può raccontarci la storia del suo paese e le sue più grandi ferite. Guidandoci con la voce, il regista ci mostra dapprima, talmente da vicino che l’immagine diventa quasi concettuale e totalmente lirica, un blocco di quarzo trovato nel deserto del Cile che contiene una goccia d’acqua millenaria. L'acqua, che nell’ordine del cosmo rappresenta la vita, è tanto onnipresente nel film quanto nello stesso Cile, che deve ad essa il suo più vasto confine, là dove la cordigliera delle Ande cade in un mare magnifico e gelato che colpisce i blocchi di ghiaccio cristallino con le sue potenti onde. 

Accompagnato dal rumore della pioggia, che seguiamo anche quando si trasforma in fiocchi sulle cime e poi di nuovo giù, a dividersi in un’infinità di perle inquiete, mai immobili, l’autore ci parla degli indigeni, che vivevano nudi in questi paesaggi ghiacciati e disegnavano sulle loro pelli brune linee e punti immacolati come la neve, questi indigeni dai piedi grandi che i coloni (che li chiamavano "patagones") hanno massacrato in mezzo secolo (a partire dalla fine del XIX) appropriandosi del loro mondo, portando con sé i loro microbi mortali e arrivando a sterminare i Selknams ricompensando i "cacciatori indiani" che si presentavano con gli organi degli indigeni abbattuti.

Una volta terminato questo genocidio, ne è seguito un altro di cui il mare contiene ancora le tracce. Negli anni 1970, sotto la dittatura di Augusto Pinochet, la "Carovana della Morte" fece migliaia di morti e centinaia di scomparsi. Di questi si scoprì, dieci anni fa, che furono attaccati, vivi o morti, a delle rotaie avvolti in sacchi di plastica gettati successivamente al largo dagli elicotteri dell’esercito. Degli scomparsi di Villa Grimaldi, finiti in mare, non restano più tracce identificabili, o quasi, eccetto un bottone di madreperla incrostato con la ruggine di una di quelle terribili rotaie, per azione dell’acqua.

"Se l’acqua ha una memoria – dice il poeta Raul Zurita – ha memoria anche di questo". In essa vive ancora il ricordo di ciascuno di questi indigeni, di ciascuno degli scomparsi della dittatura, ed è per questo che Guzman ha voluto, oggi, darle una voce. 

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(Tradotto dal francese)

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