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ASTRA 2017

Batusha’s House: una casa che incarna lo spirito di una nazione

di 

- Il documentario svizzero-kosovaro analizza un aspetto particolare del rapporto tra storia e architettura

Batusha’s House: una casa che incarna lo spirito di una nazione

Un uomo o una casa possono incarnare lo spirito di una nazione? Un documentario è in grado di catturare questo spirito? Sono queste le due domande che ci si pone assistendo a Batusha’s House [+leggi anche:
trailer
scheda film
]
, un film documentario diretto dai giovani architetti Tino Glimmann e Jan Gollob e proiettato nell’ambito della Competizione del Centro e dell’Est Europa in occasione della 24a edizione dell’Astra Film Festival (16 - 22 ottobre, Sibiu)

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Durante i primi minuti del film, si vede un postino che si dirige verso una casa a Prishtina. Ripreso da distante, l’edificio somiglia a una fortezza e, paragonato alle altre abitazioni nelle vicinanze, sembra un vero e proprio grattacielo. Si tratta della casa di Kadri Batusha, un uomo che ha trascorso molti anni in prigione in quanto combattente per l’indipendenza del Kosovo e che poi è emigrato in Svizzera. Da 15 anni, ingrandisce la casa con nuovi piani, nuove ali e nuovi parcheggi. Un pazzo o un uomo con un disperato bisogno di avere qualcosa a cui appartenere?

Da un punto di vista architettonico, la casa è un incubo, una via di mezzo tra gli schizzi irrealizzabili di Escher e, per gli appassionati di videogiochi, la pluripremiata Monument Valley. Ma tralasciando gli aspetti architettonici, questo labirinto vuole essere in primo luogo una casa. Appartenendo a un paese che fatica a ottenere un riconoscimento a livello internazionale, l’unico strumento che Batusha ha per combattere il suo sentimento di precarietà è l’enorme edificio. Sebbene non lo spieghi mai a parole, nella sua mente, questo mastodonte architettonico permette di cristallizzare e dare concretezza allo spirito del Kosovo, per evitare che venga spazzato via dai mutevoli cambiamenti del mondo politico. Possiamo usare un souvenir preso a Parigi per portare un po’ di ordine sulla nostra scrivania. Allo stesso modo, il Kosovo, per far ordine e ricordare al mondo della sua esistenza, può servirsi della casa di Batusha.

A volte, sembra che il documentario non sia stato diretto da Glimmann e Gollob, ma dall’esagerato Batusha. Forse, a causa della mancanza di esperienza dei due giovanissimi registi, ma potrebbe anche trattarsi di una scelta, in quanto la passione anarchica di Batusha per gli edifici e la sua esperienza si sposano perfettamente con la storia tormentata del Kosovo. Attraverso il suo protagonista, il documentario esplora decenni di lotte per un sogno e di decisioni complicate. La casa permette al film di sezionare il ribelle tessuto sociale del Kosovo, mentre le scelte decorative a volte pacchiane si addicono all’abitudine dei kosovari che vivono in altri paesi di affittare macchine costose appositamente per tornare nella loro terra d’origine a cercar moglie nei mesi estivi.

Oltre alle interviste con il taciturno, quasi imbronciato, Batusha e i membri della sua famiglia, il documentario usa la tecnica del voice over per affrontare i concetti di casa e appartenenza. Per buona parte del pubblico, potrebbe sembrare una discussione fuori dai canoni della normalità, ma è, senza dubbio, utile per comprendere la psicologia e il trauma di essere kosovaro. Batusha calza a pennello con il ruolo che assume nel documentario e la sua parabola di vita, da venditore di kebab ad attivista politico, da carcerato a combattente per la libertà, da immigrato a costruttore, segue il percorso di una lotta in cui le regole cambiano in continuazione. In una scena, Batusha visita i suoi parenti e i suoi amici in Svizzera, promettendo un appartamento nella sua enorme abitazione a coloro che sarebbero ritornati in Kosovo: il suo modo per combattere per il futuro del suo paese cambia ancora una volta.

Il documentario è stato prodotto dai due registi e coprodotto da Ikonë Studio (Kosovo).

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(Tradotto dall'inglese)

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