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CANNES 2002 Concorso

Riflessi hollywoodiani

di 

- Francia, Polonia, Germania e Gran Bretagna hanno coprodotto The Pianist, Roman Polanski lo ha diretto con stile internazionale

A leggere i credits de Il pianista, presentato al Palais il 24 maggio, s´immagina che il Festival abbia voluto non solo onorare un grande regista come Polanski, ma anche sottolineare di più la vocazione europea della manifestazione. Il pianista, infatti, è il frutto di una coproduzione tra quattro stati europei: Francia, Polonia, Germania e Gran Bretagna. Se un film ha diritto di chiamarsi europeo, questo è Il pianista. E non solo per lo sforzo produttivo che coinvolge quattro paesi del vecchio continente; lo è anche per l´argomento che tratta: l´Olocausto, così come l´ha vissuto un pianista ebreo di Varsavia, scampato miracolosamente alla morte, grazie alla musicofilia di un ufficiale tedesco; un pianista realmente esistito, che sulla sua esperienza ha scritto un libro, nel quale l´ebreo Polanski, che ha vissuto un'esperienza pressappoco simile all´età di dieci anni, ha trovato parecchi motivi d´identificazione.
Eppure, dopo pochi minuti di proiezione, precisamente dopo alcune immagini in bianco e nero, tratte da una vecchia cineattualità polacca, illustrante la vita a Varsavia nel 1939, prima dell´invasione tedesca, non appena le immagini prendono a colorarsi, si ha la sensazione di piombare in una rievocazione degli eventi di tipo hollywoodiano, della Hollywood degli anni Sessanta, quando imperava la Runaway Production: gli ebrei polacchi parlano tra di loro un perfetto inglese, la fotografia, sebbene curata dal polacco Wojciech Kilar, ha la levigatezza dei film americani di quell´epoca. Più che allo spielberghiano Schindler´s List, pensi al Dottor Zivago di David Lean, coprodotto da Carlo Ponti con la Metro Goldwyn Mayer.
Eppure si tratta d´un film di memoria. Possibile che la memoria europea di Polanski, nata nel «sangue d´Europa», si tinga di colori hollywoodiani? E´ vero che i registi polacchi hanno una vocazione internazionale sconosciuta ai loro colleghi europei, sia dell´Est che dell´Ovest. Ma si tratta di una vocazione limitata al nostro continente: i film di Wajda, Skolimowski, Borowczyk, Zanussi, Kawalerowicz. Solo Munk è morto troppo presto per fare il pendolare tra l´Europa dell´Est e l´Europa dell´Ovest. Polanski però è diverso. Polanski è anche il regista di Chinatown, uno dei grandi film della Hollywood degli anni Settanta. Se oggi non lavora a Hollywood, dipende dai suoi problemi personali.
Ho conosciuto Polanski nel 1997 a Venezia, dove facevo parte della giuria che lui presiedeva: la Mostra che aveva in concorso The funeral di Abel Ferrara, Briganti di Ioseliani, Profundo Carmesi di Ripstein, per citare i film che più si ricordano. Lui impose la sua indiscussa autorità per premiare Michael Collins di Neil Jordan, irlandese, ma col marchio Warner Bros bene impresso anche sul piano culturale. L´argomento principe fu la sua formidabile fattura. Michael Collins: un altro film rievocativo. Il perfezionismo è l´ossessione di Polanski: lo si vede anche ne Il pianista, nella formidabile digitalizzazione delle rovine del ghetto di Varsavia. Ma è il perfezionismo che ha trovato la sua perfezione (scusate il bisticcio di parole) nella mentalità hollywoodiana.
Nel corso della seduta finale di quella giuria, provai a difendere Pianese Nunzio di Capuano, che procedeva in senso contrario ai gusti di Polanski. Per fare un po´ di colpo su di lui, inventai un paragone musicale:»Diciamo che è un film dodecafonico». Polanski mi rispose con una voce quasi lamentosa: »Ma io amo Mozart«.

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