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VISIONS DU RÉEL 2016

Looking Like My Mother, la Svizzera scrutata attraverso gli occhi della malattia

di 

- Dominique Margot torna a Visions du Réel per presentare il suo ultimo film, che racconta, fra sogno e realtà, la storia di sua madre depressa

Looking Like My Mother, la Svizzera scrutata attraverso gli occhi della malattia

Sei anni dopo aver presentato il suo intenso Toumast-entre guitare et kalashnikov,la regista zurighese Dominique Margot è nuovamente presente a Visions du réel di Nyon dove presenta in Competizione internazionale Looking Like My Mother [+leggi anche:
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scheda film
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, un film intimo su un tema complesso, scomodo, inafferrabile.

Spinta, come lei stessa dice, dal bisogno di parlare di una malattia, la depressione, che a lungo è stata considerata come un soggetto tabù, Dominique Margot ci regala il ritratto intimo di sua madre mettendo in luce l’incomprensione e allo stesso tempo le (spaventose) similitudini che le hanno unite. Sebbene Looking Like My Mother non ci dia delle vere chiavi (scientifiche, psicologiche…) per sondare il mistero di una patologia ancora oscura e soffocata da tanti, troppi, luoghi comuni, questo ha indubbiamente il merito di farci sentire il disagio e l’impotenza che invade non solo il malato ma anche e soprattutto le persone che gli sono vicine. 

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Grazie a una costruzione “ibrida” e spesso “sgargiante” fatta d’immagini d’archivio (la maggior parte foto), sporadiche testimonianze di membri della famiglia (che cercano di superare la discrezione dietro la quale si sono a lungo protetti) e soprattutto ricostruzioni di ricordi della regista (sconcertanti le foto che improvvisamente si animano, tableaux vivants di un passato anchilosato) che rimbalzano fra realtà e finzione e l’intervento liberatorio della migliore amica della madre custode di un’incredibile archivio epistolare, Dominique Margot cerca di ricostruire il senso di una vita. Di cosa sono fatti i ricordi? Che percentuale di soggettività li compone? E se il solo tentativo di materializzarli bastasse a snaturarli? Queste sono solo alcune delle domande sollevate dal film che rivendica la sua forma ibrida in nome di una verità sicuramente parziale e soggettiva ma non per questo meno sincera e forte. 

La regista utilizza la ricchezza del mezzo filmico per ridare vita a una realtà offuscata, in bilico fra tangibilità e incubo che ha per tanti anni rappresentato il quotidiano non solo di sua madre ma di tutta la famiglia, strozzata dall’incomprensione, dalla colpevolezza e da un bisogno vitale di libertà che ritroviamo nella sceneggiatura, a tratti sorprendentemente ludica. Al di là di quello che il film può (o meno) dirci sulla depressione, Looking Like My Mother ci trasporta nel cuore della relazione complessa fra una madre e sua figlia, smuovendo desideri contraddittori e mettendo in avanti la necessità di esprimersi che, soffocata ed infine liberata, marca il destino di tre donne, di tre generazioni.

In questo senso forse il momento più forte e sincero del film è quello in cui la regista ci parla dell’infanzia apparentemente idilliaca di sua madre protetta fra le rassicuranti montagne svizzere che si trasformano improvvisamente in prigione, in un pozzo senza fine nel quale annegare il suo malessere senza nome. Delle montagne che sembrano cristallizzare tutta una mentalità, rurale e intrisa di dogmi, immutabile e pericolosamente muta. Che la sorgente del malessere di sua madre sia proprio da ricercarsi su quelle vette? Da storia intima il film si trasforma (forse suo malgrado) nel ritratto di tutta un’epoca, di tutto un territorio dove l’essere e l’apparire dovevano rimanere rigorosamente separati fino alle conseguenze più estreme. 

Looking Like My Mother è venduto nel mondo dalla zurighese Maximage (Brigitte Hofer e Cornelia Seitler).

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