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Alessandro Angelini • Regista

Alza la testa, Castellitto tra boxe e paternità

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La prima edizione del Festival di Roma, nel 2006, aveva portato fortuna al suo esordio L’aria salata [+leggi anche:
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, grazie a cui Giorgio Colangeli vinse il Marc’Aurelio d’Oro come miglior attore e poi iniziò ad infilare nel suo curriculum una lunga serie di opere prime. Ora il trentottenne Alessandro Angelini ci riprova con Alza la testa [+leggi anche:
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, altra storia drammatica su un complicato rapporto tra padre e figlio, nuovamente prodotta da Donatella Botti (insieme a Rai Cinema e Alien Produzioni) con un budget di 2milioni e 700mila euro. Anche in questo caso - un po’ perché non ci si è affrettati a finire la pellicola per Venezia, un po’ sperando che la capitale sia di nuovo foriera di successi – il film sarà in concorso al festival capitolino, il 18 ottobre, per poi arrivare in sala il 6 novembre con 01 Distribution. Alza la testa è il mantra che papà Mero/Sergio Castellitto ripete a suo figlio diciassettenne Lorenzo/Gabriele Campanelli per insegnargli l’orgoglio e farlo diventare quel campione di boxe che lui non è mai riuscito ad essere.

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Cineuropa: Alessandro Angelini, che genere di film è Alza la testa?
Alessandro Angelini: E’ una pellicola dalla struttura anarchica. Parte come una commedia, poi diventa un racconto di formazione, poi un film drammatico sui rapporti tra padre e figlio e infine un road movie che riserva un importante colpo di scena. E’ la storia di un uomo che si ritrova costretto a crescere suo figlio da solo dopo che la madre, albanese, li ha abbandonati, e che quando questo figlio lo perde, va in cerca di ciò che resta di lui. Contemporaneamente è la storia di un adolescente che cresce in un ambiente familiare fatto di soli uomini, molto virile, ed è diviso tra la voglia di compiacere il desiderio del papà di farlo diventare un campione di boxe e quella di vivere spensieratamente l’adolescenza.

Perché ha scelto il mondo della boxe?
E’ uno sport che è anche metafora della vita: il padre insegna al figlio a parare i colpi che lui stesso ha subito dalla vita. E poi è uno sport povero - che anche se hai successo non ti porta da nessuna parte - a cui mi sono appassionato da quando ho realizzato un documentario, Un cuento de boxeo, su Teofilo Stevenson, il mito del pugilato cubano che rifiutò il professionismo e gli stratosferici compensi che ne derivavano.

Ma il ring non è l’unico ambiente importante del film.
No, è fondamentale anche il quartiere nautico in cui Mero cresce Lorenzo: è un operaio specializzato che conosce solo questo capannone tra Ostia e Fiumicino (luoghi che tra l’altro rimandano volutamente a Pasolini) e che poi sarà costretto dalla morte del figlio a spostarsi in un’Italia di confine, tra il Friuli e la Slovenia, dove si sentirà uno straniero.

Come è stato il lavoro con Sergio Castellitto?
Ho costruito il film su di lui e il set è stata un’esperienza meravigliosa: Sergio creava il personaggio insieme a me. Io non mi considero un vero regista nel senso tecnico del termine, non sono bravo a posizionare la macchina da presa; piuttosto ‘sento’ quello che voglio che ci sia nella storia, e in questo il mio protagonista mi ha aiutato tantissimo. Ha messo nel suo Mero una grande sensualità, l’ambiguità di un ‘uomo-donna’ che, trovando intollerabile essere stato abbandonato da una donna, spinge al massimo sulla sua virilità anche se poi fa la spesa, cucina e pulisce casa.

Cosa pensa che le porterà la partecipazione in concorso al Festival di Roma?
I festival in generale offrono qualcosa che la semplice uscita in sala non dà: vedere la reazione del pubblico di un festival ti dà la misura del tuo lavoro, ti fa capire subito se arriva o no allo spettatore. E poi Roma portò molto alla mia opera prima L’aria salata, e sono contento di esserci di nuovo.

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