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Arnaud Desplechin • Regista

Rompere le barriere

di 

- Arnaud Desplechin ha spiegato alla stampa internazionale perché si è lanciato nell'avventura di Jimmy P.

Affiancato dagli attori Benicio del Toro, Mathieu Amalric, Gina McKee e Misty Upham, e dal co-sceneggiatore Kent Jones, il regista francese Arnaud Desplechin ha spiegato alla stampa internazionale perché si è lanciato nell'avventura di Jimmy P. [+leggi anche:
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, girato negli Stati Uniti, in lingua inglese, e presentato in concorso al 66mo Festival di Cannes.

Come è entrato il libro di Georges Devereux nella sua vita di cineasta?
Arnaud Desplechin: Mi ero servito di alcuni passaggi ne I re e la regina [+leggi anche:
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. E' un libro che mi accompagna da tempo. Perché? A causa del titolo. Quando ho visto il titolo Psychotherapy of a Plains Indian in una libreria, ho capito che era fatto per me. L'ho aperto a metà e sono capitato su questi dialoghi, come una pièce teatrale, tra un paziente e il suo analista. Non è tanto la parte teorica di questo dialogo che mi ha affascinato. Penso che debba essere l'unica psicanalisi di cui abbiamo i verbali di tutte le sedute. Abbiamo un uomo, Jimmy, e ci immergiamo nella sua anima. E' una lettura molto romanzesca. Abbiamo dal primo "buongiorno", tra due uomini che non si conoscono, fino all'ultimo "arrivederci", dopo il quale non si rivedranno più. E ho pensato che la forza drammatica di questo dialogo fosse il soggetto del libro.

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Le origini "straniere" dei due personaggi principali rendeva la storia ancora più interessante?
E' il cuore del film. Uno viene dal Montana, l’altro dalla Francia, e si ritrovano in mezzo al nulla, a Topeka, quindi non possono che diventare amici. Né l'uno né l'altro sono veramente americani, uno perché è indiano e l'altro europeo. Nel film, imparano come vivere negli Stati Uniti e alla fine cominciano a essere americani. Ma quello che conta è che Devereux è uno psicanalista che ha lavorato con la comunità "nativa". Freud diceva che forse la psicanalisi era riservata alla borghesia. Che avventurieri come Devereux rompessero questa barriera e dicessero che doveva essere consentita a tutti, questo mi tocca perché guarda con uguale rispetto, dignità e acume pazienti venuti da una riserva indiana come i viennesi del XIX secolo. E spero sia il mio modo di guardare i miei personaggi indiani, come se fossero usciti dai libri di Thomas Hardy. Al montaggio, guardando Benicio, pensavo a Jude l’oscuro. Volevo dare a personaggi che vengono da condizioni umili la nobiltà dei personaggi di Thomas Hardy.

E' il suo primo film americano, in lingua inglese. Come ha vissuto questa esperienza?
Penso sempre alla frase di Renoir: "Niente assomiglia di più a un calzolaio dell'India che un calzolaio di Parigi". Certo, ci sono piccole specificità, soprattutto un modo americano molto singolare di trattare con gli attori. Ma sono differenze minime. Si tratta soprattutto di fabbricare un film. Quindi mi sono guardato dalla trappola dell'esotismo. Volevo adattare questo libro e questo libro non poteva che essere girato negli Stati Uniti. Abbiamo lavorato in condizioni piuttosto difficili, con poco tempo per le riprese, un budget ridotto. Ma è stato facile per me spiegare l'abitudine francese di girare "on location" e mai in studio, e di essere il più rispettoso possibile, nello spirito della Nouvelle Vague, di quello che è veramente accaduto.

Cita John Ford e François Truffaut nel film. E la sua regia è molto più classica del solito. Perché?
John Ford e François Truffaut sono registi cui penso mattina e sera. Giusto la settimana scorsa ho rivisto Furore. La regia più semplice è dovuta principalmente alle condzioni pratiche di fabbricazione del film. Quindi ho semplificato e mi sono fortemente appoggiato all'intreccio. Qual era il mio compito? Avere eguale empatia per lo psicanalista e l'analisi. Semplificare mi permetteva di concentrarmi sui due uomini e su quello che poteva nascere dal conflitto o dall'amicizia tra loro. 

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