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Marcin Koszalka • Regista

"Preferisco prendere la strada della sperimentazione"

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- Marcin Koszalka, noto direttore della fotografia e documentarista polacco, parla di Il ragno rosso, suo primo lungometraggio di finzione come regista.

Marcin Koszalka  • Regista

Cineuropa: Lei è conosciuto soprattutto come regista di documentari e direttore della fotografia. Il ragno rosso [+leggi anche:
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è il suo primo lungometraggio di finzione, ma la finzione era già presente nei suoi documentari con scene totalmente inventate.
Marcin Koszalka: Non credo al genere del documentario che registra semplicemente la realtà. Mi hanno sempre detto, da quando ero studente, che il documentario oggettivo non esiste, che un universo viene sempre trasformato e interpretato dal regista. Si può certamente fare un reportage televisivo in cui si cerca di presentare le opinioni degli uni e degli altri, i "pro" e i "contro", per tentare di arrivare a una conclusione oggettiva. Ma nel caso dei documentari d’autore come quelli che faccio io, c’è sempre la visione di un autore, una trasformazione della realtà, a condizione, certo, di lavorare su quella realtà e sui personaggi. Non ho il diritto di cambiare la loro vita, ma posso cercare di modellarli un po’ a modo mio. Perché se faccio film, li faccio un po’ su me stesso, scelgo i personaggi secondo la mia chiave personale. Per me, è un po’ come una terapia.

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Il tema principale di Il ragno rosso, quello di un serial killer, è un classico che avrebbe potuto virare facilmente al film di genere, cosa che nel suo film non accade.
Il premio che mi hanno assegnato i critici al festival di Arras mi ha confortato nella mia scelta di andare controcorrente, di aver corso dei rischi con questo film. Invece di provare a me stesso e al pubblico le mie competenze realizzando un film di genere, preferisco prendere la strada della sperimentazione. Da una parte è un rischio, ma da un altro punto di vista è un partito preso: posso confrontarmi con ciò cui già tante volte hanno "giocato" gli altri. Era necessario lavorare a questo soggetto nella mia maniera, una vera tentazione. Non è il soggetto della mia vita, ma ammetto di trovarvi traccia di una fascinazione un po’ perversa per le grandi profondità. Vi riscopro il mio lato cupo e non nascondo che il mistero del male mi attira.

Lo sfondo della storia è vago, ambiguo. Il pubblico non trova risposta alle sue domande sulle motivazioni dei personaggi.
Era per me l’unica opzione possibile. Tentare di dare una definizione del male o spiegarlo sarebbe stata una soluzione banale e kitsch. Non evito totalmente di dare risposte, ma do indizi sulle motivazioni dei personaggi principali, indicando i contesti, la vita, la città, le persone care, le condizioni esterne. Se avessi tentato di fornire allo spettatore una spiegazione diretta del male, questo film non avrebbe senso.

Ritroviamo in The Red Spider dei riferimenti ai suoi film precedenti, in particolare Killing Out of Lust e Declaration of Immortality. Sembra che lei racconti una storia unica attraverso i suoi film.
Assolutamente, è sempre un seguito: una storia entra nell’altra, si intrecciano, si completano, si susseguono. E’ il mio viaggio.

Fino a che punto il contesto storico di Il ragno rosso, gli anni ‘60 in Polonia, in pieno comunismo, era importante per lei?
Questa epoca mi ha offerto un ottimo spazio per questa storia. Se l’avessi collocata nell’epoca contemporanea, avrebbe perso molto. Con gli anni ‘60, in Polonia, che è un periodo particolare, questa storia prende una certa dimensione. Era un’epoca cupa con poca luce, il vuoto e l’ordinario erano ovunque: la gente portava vestiti simili, viaggiava in autobus, c’erano poche macchine… Se avessi trasposto l’azione ai giorni nostri, la storia sarebbe rimasta uccisa dalla moltitudine di fattori. In più, grazie a questo contesto, mi sono potuto allontanare dallo stereotipo del serial killer imposto dalla cultura anglosassone.

Per Il ragno rosso è stato regista e direttore della fotografia. E’ difficile questo doppio ruolo?
Facile non è di sicuro. Ma anche lì, non avevo scelta. Fin dall’inizio, ero io a visualizzare questa storia e sapevo di doverla raccontare per immagini, con i miei colori, i miei toni. Per fortuna, il film non era una grossa produzione. E’ un film intimo. Nel caso contrario, forse non sarei riuscito a cavarmela e avrei dovuto fare appello a un capo operatore. Adoro raccontare per immagini, e il direttore della fotografia è il mio mestiere di base. E’ vero che quando svolgi i due ruoli contemporaneamente ti senti solo sul set: non hai il sostegno di un capo operatore che può dare suggerimenti al regista, fare delle annotazioni, consigliare, criticare. Ma da un’altra parte, occupare le due funzioni, non essere condannato a conflitti, a divergenze d’opinione e di visione, è un grande conforto. 

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(Tradotto dal francese)

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