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Dane Komljen • Regista

“Non faccio film su cose che conosco”

di 

- Dopo l’anteprima a Locarno del suo film d’esordio, All the Cities of the North, abbiamo incontrato il cineasta bosniaco Dane Komljen al Sarajevo Film Festival

Dane Komljen  • Regista

Un film non convenzionale, che parla di luoghi, relazioni e utopie - personali e collettive - attraverso la storia di tre uomini che abitano in un insediamento di bungalow abbandonati, da qualche parte nell’ex Iugoslavia: su questa premessa si basa All the Cities of the North [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Dane Komljen
scheda film
]
, opera prima del cineasta bosniaco Dane Komljen, presentata al Sarajevo Film Festival, dopo l’anteprima di Locarno. Ne abbiamo parlato insieme, all’incontro sulla Bosnia.

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Cineuropa: Qual è stata l’idea iniziale che l'ha spinta a realizzare il film?
Dane Komljen: Tutto è cominciato quando ho visto per la prima volta questo insediamento abbandonato di bungalow. Ho trovato che ci fosse qualcosa di davvero speciale in quel luogo – una sensazione per cui non vorresti mai andartene. Puoi percepire che è stato un posto dove sono nate relazioni che non sono potute continuare. La mia intenzione era quella di accostare immagini della persona che amo e di mio padre, che ho perso otto anni fa; una specie di incontro immaginario tra loro due in questo posto. E così ho iniziato a riempirlo della mia storia.

C’era una struttura dietro il film?
Non faccio film su cose che conosco. Quando c’é qualcosa che non riesco a vedere, realizzo un film proprio allo scopo di visualizzarla. Comincio a lavorarci partendo da qualcosa che mi riguarda personalmente, ma poi la porto altrove. Mi sono reso conto che il film parla fondamentalmente degli uomini che hanno fatto parte della mia vita. Quando ho pensato i personaggi, volevo fossero legati da una relazione che non si può definire a parole. Questo doveva esserci sin dall’inizio, lo avevamo stabilito con gli attori. Per cui un copione c’é, e lo troviamo nel film; ma c’è anche molto altro che è nato dall’improvvisazione e dall’interpretazione. Effettivamente potevamo prendere qualsiasi direzione in qualsiasi momento. Questo ha a che fare anche con il modo in cui abbiamo occupato i luoghi delle riprese. Volevo proprio che questo film fosse come un riparo dal mondo reale, qualsiasi cosa esso sia. La distanza filmica stessa è esclusa.

Lo spazio è molto importante: si riferisce spesso a edifici che sono stati costruiti, poi abbandonati e in seguito riabitati. Cosa l'ha attratta in tutto questo?
L’idea di un’utopia che è sopravvissuta ai disordini, di come essa si sposti da luogo a luogo. Anche se queste costruzioni non sono utilizzate nella funzione per cui erano state pensate, possono comunque essere riutilizzate in un altro modo. Per esempio, il progetto Lagos, che è stato concepito in Iugoslavia, è stato poi fatto proprio da persone che lo hanno stravolto e usato in modo diverso da quello originario, ma che fanno comunque parte del progetto. Quindi non è stato un fallimento. Si può far propria un’utopia secondo la propria idea, che non necessariamente deve essere quella originaria.

A cosa è dovuta la scelta artistica di includere testi di Jean-Luc Godard, Simone Weil e miti serbi?
Volevo che il film fosse una specie di percorso, quindi ho aggiunto elementi su elementi. Quando mi è venuta questa idea dell’utopia del XX secolo, ho voluto rinforzarla con pensieri di amore e libertà. E’ questa la vera essenza del film. Ma sentivo che non potevo fermarmi qui, perché il modo in cui viviamo è più antico di questo. Così ho deciso di inserire il poema epico serbo su un grande eroe nazionale – usandone solo l’incipit, il che potrebbe rimanere ambiguo. E’ anche un modo per utilizzare qualcosa che esisteva già e rendere il film di più ampio respiro.

Nel suo film ci sono anche scelte stilistiche molto audaci, come quella di rompere la quarta parete...
Questo è solo un elemento tra gli altri. E’ finzione, lo è sin dall’inizio; il film si apre con l’immagine di una vecchia sala cinematografica. Mostrare cosa c’è dietro la telecamera non intacca in alcun modo la finzione. Dovrebbe restare aperta e credo che il cinema possa davvero includere qualsiasi cosa. Bisogna restare sempre con gli occhi aperti su tutto ciò che ci circonda, e fare in modo che il film ne faccia parte.

Trattandosi di un film così ardito, è stato difficile trovare un produttore?
Abbiamo impiegato quattro anni. Sono più abituato a fare cortometraggi, per i quali i tempi sono più rapidi. In questo caso è stato necessario un maggiore dispendio di tempo, ma non è stato diverso dal produrre un corto; ci ho solo messo più tempo. Il primo stanziamento di denaro lo abbiamo ricevuto dallo Hubert Bals Fund, poi è stato più facile ottenerne altri. E’ un film dal budget ridotto, per cui non è stato troppo difficile.

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(Tradotto dall'inglese)

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