Mirko Pincelli • Regista
"Oggigiorno non esiste un posto dove sia semplice realizzare un film"
- Abbiamo parlato con il documentarista italiano Mirko Pincelli del suo primo lungometraggio di finzione, The Habit of Beauty, che è stato selezionato a Montreal

Abbiamo parlato con il giovane documentarista italiano Mirko Pincelli del suo primo lungometraggio di finzione, The Habit of Beauty [+leggi anche:
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intervista: Mirko Pincelli
scheda film], e prodotto da Orisa e selezionato al Montreal World Film Festival.
Cineuropa: Lei ha già una discreta esperienza come documentarista con un forte impegno civile, e ora ha realizzato il suo primo lungometraggio di finzione. Cosa l'ha spinta a intraprendere questo progetto?
Mirko Pincelli: Sono sempre stato interessato a quelle storie che spesso vengono dimenticate e ignorate. Nel 2011 mi sono recato nei Balcani - in particolare in Bosnia-Erzegovina - per realizzare il mio primo lungometraggio documentario. Si trattava di una storia incentrata sulla lotta degli adolescenti (di tre etnie diverse) per riconciliarsi e vivere insieme dopo la guerra. Il documentario, che ha richiesto tre anni di lavorazione, ha avuto un discreto successo, ha anche ricevuto una nomination al Raindance Film Festival e poi una distribuzione mondiale da parte di Journeyman Pictures. Questo ha portato a un secondo, poi a un terzo, e poi in qualche modo ho sentito la libertà di concentrarmi insieme al mio socio in affari Enrico Tessarin, e abbiamo scritto il nostro primo lungometraggio come team di scrittore-produttore-regista. Abbiamo iniziato a scrivere The Habit of Beauty con lo stesso approccio che avevamo adottato durante la realizzazione dei nostri documentari: scrivere di temi che ci stavano particolarmente a cuore e che avevamo vissuto personalmente, prestando particolare attenzione alle persone che soffrono e lottano. Volevamo fare un film senza compromessi, seguendo il nostro istinto di narratori e registi. Volevo fare un film su storie di vita reale, storie universali che sarebbero potute accadere a chiunque. Abbiamo scritto storie di italiani emigrati a Londra, come noi, e del loro scontro con una cultura britannica molto diversa. Come nei nostri film documentari, non parliamo mai di storie inventate, ma ci basiamo su eventi reali.
Il film vanta un cast e una troupe molto raffinati e "misti", non solo dal punto di vista artistico, ma anche tecnico. È stato difficile organizzare l’attività produttiva di questo film?
Avevamo in mente fin dall'inizio delle persone specifiche e volevamo lavorare con loro a tutti i costi, semplicemente perché credevamo che la loro esperienza fosse essenziale per realizzare il film che avevamo in mente. Penso anche che siamo stati molto fortunati a ottenere la fiducia di un cast estremamente talentuoso e di una troupe esperta. Lavorare insieme è stata un'esperienza importante, in cui tutti abbiamo imparato e condiviso molto. Detto questo, sì, è stato difficile, soprattutto perché, come in ogni coproduzione, avevamo un cast e una troupe misti, metà italiani e metà inglesi. In un film è molto importante "diventare" una famiglia, dove tutti lavorano con la stessa passione e lo stesso intento. Questo, ovviamente, non è sempre possibile, ma era la nostra priorità quando abbiamo girato questo film. Durante la preparazione di un film finisce sempre per mancare qualche ruolo chiave (sia nel cast che nella troupe), ma nel nostro caso le persone che hanno abbracciato il film in una fase precedente sono state estremamente utili per costruire il resto della grande squadra e, in alcuni casi, hanno anche contribuito finanziariamente. Sono estremamente grato a loro.
Sul fronte della produzione, lei è piuttosto attivo con la società basata a Londra, insieme a Enrico Tessarin. È facile fare film nel Regno Unito? Ha paura delle conseguenze della Brexit sulle potenziali coproduzioni europee?
Oggi non c'è un posto facile per fare film, credo. La differenza principale è che l'Inghilterra, e in particolare Londra (dove entrambi abbiamo vissuto per oltre un decennio), offre probabilmente più opportunità. È un luogo più grande, con influenze da ogni dove, dove se si lavora duramente si ottengono risultati. Ho iniziato a studiare e poi a lavorare come fotografo all'età di 20 anni; poi ho aperto la mia società (principalmente incentrata sul documentario) insieme a Enrico sei anni fa, e prima dei 30 anni avevo già realizzato il mio primo film. Non dico che questo non accada in Italia - tutt'altro - ma è sicuramente più difficile. Quindi sono propenso a dire che a Londra si hanno più possibilità. Uso il passato perché ora sono tornato in Italia, dopo 12 anni, perché spero davvero di adottare lo stesso approccio qui: lavorare sempre su coproduzioni, con storie e investitori internazionali, ma con un rapporto più stretto con l'Italia. Il finanziamento dei film nel Regno Unito è molto diverso da quello italiano, dove si fa affidamento principalmente su tre fonti di finanziamento: il Ministero della Cultura, la TV nazionale e i fondi regionali. Nel Regno Unito, credo che ci siano più opportunità di incontrare investitori privati disposti a innamorarsi della tua storia. Quello che credo sia così prezioso in Italia sono i membri della troupe estremamente esperti, persone che lavorano per anni come assistenti su molti set cinematografici in tutto il mondo, affinando le loro capacità e diventando eccellenti in quello che fanno. La Brexit è preoccupante per tutti, ma credo che chi ama il cinema troverà sempre il modo di farlo, anche in tempi difficili.
(Tradotto dall'inglese)
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