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Fabio Mollo • Regista

"Smettere di essere figli e diventare genitori"

di 

- Il regista calabrese Fabio Mollo presenta la sua opera seconda, Il padre d’Italia, un road movie in cui si parla di futuro, paternità e amore oltre le barriere. In sala dal 9 marzo

Fabio Mollo  • Regista

Con la sua opera prima, Il Sud è niente [+leggi anche:
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(2013), Fabio Mollo era stato selezionato ai festival di Toronto, Roma (Premio Taodue) e Berlino, e nominato ai Globi d’oro. Il 36enne regista calabrese torna ora direttamente in sala (dal 9 marzo) con Il padre d’Italia [+leggi anche:
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. Il film ha per protagonisti Isabella Ragonese e Luca Marinelli, nei panni di una donna incinta che non vuole figli e di un omosessuale che sogna di diventare padre, lanciati in un folle viaggio da Nord a Sud Italia. 

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Cineuropa: Anche qui il Sud ha un ruolo molto importante. C’è un filo che lega questo suo secondo film alla sua opera prima, Il Sud è niente?
Fabio Mollo: In realtà, sono due mondi molto diversi: Il Sud è niente è un film d’atmosfera, rubato alla realtà, con Miriam Karlkvist che non aveva mai recitato prima. Il padre d’Italia è invece molto costruito sui dialoghi, la messa in scena dei personaggi, l’ho immaginato sin dall’inizio come un film con due signori attori e che la trama fosse più forte dell’atmosfera. Entrambi nascono però da una forte urgenza, quella di contribuire al racconto di una generazione, della società e del momento culturale che stiamo vivendo. Ne Il Sud è niente c’è il tema dell’omertà sociale che diventa omertà privata, qui il tema di due trentenni che hanno paura di diventare genitori, per ragioni diverse.

Anche l’elemento della fisicità ricorre nel suo cinema.
Mi piace il cinema fisico. Ne Il padre d’Italia il corpo è molto importante, Isabella e Luca sono spesso nudi, ma anche quando sono vestiti il loro racconto fisico è essenziale, come lo era il racconto del corpo di Grazia ne Il Sud è niente. Mi piacciono i film fatti di carne e ossa e sangue. Nonostante i tanti dialoghi, volevo che Il padre d’Italia mantenesse questo aspetto carnale. 

Che tipo di paternità voleva raccontare?
Per me era importante raccontare una generazione nel momento in cui si smette di essere figli e si prova a diventare genitori, nonostante le difficoltà e la precarietà. Una precarietà economica, ma anche emotiva. Paolo e Mia sono precari in modo diverso. Paolo vive in disparte; Mia, al contrario, è un’esplosione di vitalità, e Paolo si lascia trascinare in un viaggio che lo porta a confrontarsi con la paternità, tema che aveva rimosso perché lo considerava contro natura, in quanto omosessuale. 

Perché la scelta di un road movie?
L’on the road era importante perché considero le storie d’amore come un viaggio. Questa è un’intensa storia d’amore tra due personaggi che si avvicinano in un momento molto delicato per loro. Un amore che ha poco a che fare con la sessualità, che supera le barriere. Attraversiamo l’Italia in modo geografico, ma anche emotivo e sociale. Mano a mano che arriviamo al Sud i personaggi si spogliano, non soltanto perché fa caldo, ma si liberano di una corazza e si lasciano andare alla vita, soprattutto Paolo. 

Una delle scene più suggestive è quella girata nell’orfanotrofio. Come l’ha costruita?
Abbiamo sempre immaginato che Paolo facesse questo viaggio con Mia come un viaggio nella propria infanzia. Scopriamo nel film che ha trascorso l’infanzia in un orfanotrofio, per me era importante che una volta arrivato lì il film avesse una svolta quasi onirica. Quando entra in quell’orfanotrofio è come se entrasse nel suo passato, è come se si rivedesse. Abbiamo girato la scena in una vera casa famiglia a Torino, questo ha aiutato a strutturarla. 

Quali sono stati i suoi riferimenti per questo film?
Ho pensato questo film come "Gianni Amelio incontra Xavier Dolan", passando per Una giornata particolare di Ettore Scola. Autori per me molto importanti, rivisti con un look contemporaneo, mi piace provare a creare una commistione tra cinema italiano e cinema europeo. In scrittura c’è un richiamo molto forte a Il ladro di bambini, nella regia invece c’è un richiamo a Dolan. La musica è molto presente, c’è un mondo estetizzato anche se povero, perché Mia è una ragazza di strada, eppure è vestita sempre come se stesse andando a ballare. Ma anche perché la regia di Dolan è al servizio degli attori ed è quello che ho immaginato sin dall’inizio per questo film. Con Luca e Isabella abbiamo dato vita a Mia e Paolo scena per scena. Ogni passaggio emotivo era sempre discusso, vissuto, cambiato se necessario.

A proposito delle musiche, che tipo di ricerca avete fatto?
Mia è una cantante e volevamo che il suo mondo musicale fosse raccontato da lei. Abbiamo fatto una ricerca estenuante di canzoni giuste sia per la storia che per la generazione. Le due performance canore hanno arricchito il film: Luca in versione Loredana Berté in due momenti intimi, e la versione degli Smiths cantata live da Isabella. Mia, d’altronde, è come se fosse la Berté agli occhi di Paolo, una cantante trasgressiva. Nella colonna sonora c’è un richiamo agli anni ’80 che ci piaceva mettere in scena anche visivamente coi colori e nei costumi, e poi c’è molta musica elettronica. 

Quali sono le prossime tappe del film?
Mi auguro che venga visto anche all’estero e i festival sono un’opportunità in questo senso. Ma in questo caso sono felice di uscire prima in Italia. Rispetto a Il Sud è niente che ha fatto tanti festival e poca sala, vorrei che questo film fosse visto il più possibile, che riuscisse a emozionare un pubblico più vasto, perché un tema del genere raccontato in questo modo, e con due attori così, è importante che venga condiviso, argomentato e che magari crei un dibattito.

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