Peter Schønau Fog • Regista
“Dobbiamo spezzare le catene narrative ed essere un po' più godardiani”
- TORONTO 2017: Abbiamo parlato con Peter Schønau Fog dell'ispirazione all'origine del suo secondo film, You Disappear, tra le Special Presentation di Toronto

Il filmmaker danese Peter Schønau Fog, la cui popolarità si deve già al suo primo film, The Art of Crying [+leggi anche:
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scheda film] (2006), è finalmente di ritorno con la sua seconda fatica, You Disappear [+leggi anche:
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intervista: Peter Schønau Fog
scheda film], adattamento di un romanzo di Christian Jungersen, inclusa tra le Special Presentation al 42o Toronto International Film Festival. Abbiamo parlato con il regista dell'ispirazione all'origine del suo secondo film, e del tipo di narrazione poco convenzionale e frammentaria che lega il suo film alle neuroscienze.
Cineuropa: Perché ha deciso di adattare You Disappear?
Peter Schønau Fog: Ho perso mio padre per un problema neurologico e volevo sapere tutto quello che gli stava succedendo. Poi è uscito il romanzo di Christian Jungersen che trattava un tema molto simile. Dopo averlo letto, mi sono reso conto che non parlava solo di una famiglia in piena crisi o della malattia cerebrale, ma esplorava anche la percezione scientifica degli esseri umani, che è completamente differente da come la immaginiamo. Il nostro cervello lavora in un modo molto frammentario e complicato, quindi non possiamo dire quanto siano libere le nostre azioni. È interessante anche che la percezione coinvolga tutto, dal sistema legislativo a come ci vediamo l'un l'altro. Siamo ancora nel Medio Evo per quanto riguarda la conoscenza del funzionamento del nostro cervello.
Quindi pensa che il suo film abbia a che fare con la definizione di libero arbitrio?
Ho iniziato a esplorare le neuroscienze cercando il più possibile di immergermi in questo materiale e mi ci sono voluti quattro anni e mezzo per arrivare dove sono ora. Anche Jungersen ha impiegato quattro anni e mezzo per arrivare a questo punto. Non è importante quello che penso, io stesso continuo a pormi la stessa domanda e non è affatto semplice darsi una risposta. La maggior parte della gente crede che siamo dotati di libero arbitrio, ma andando a fondo in questi studi, si scopre che sono molti i fattori che determinano una scelta.
Il suo film segue una forma di narrazione completamente frammentata; anche questo è legato alla percezione da un punto di vista neuroscientifico?
La narrazione è certamente legata all'idea umana di quello che siamo e non, ovviamente, dal punto di vista scientifico. Tutto viene scritto sulla base di una specifica idea di quello che è l'essere umano. È stata una scelta deliberata quella di rifiutare questo tipo di narrazione; sentivo che era una sfida più interessante raccontare una storia in modo scientifico.
Ho riprodotto l'illusione del triangolo di Kanizsa, in cui si vedono solo dei frammenti ed è il cervello a generare il triangolo invisibile. Questo, per me, è il fulcro del dramma, perché è esattamente il modo in cui sono conservati i nostri ricordi. Presumibilmente, osservando dei frammenti di una storia, il cervello di chi guarda può generarne un'altra sua basata sui propri ricordi. Ognuno sperimenta un film diverso e ne ricava una realtà sua o, meglio, una sua illusione della realtà del film.
Lei ha collaborato con un cast di attori famosi; è stato difficile per loro adattarsi a questo approccio?
Prima di tutto, vorrei esprimere il mio dolore per la morte di Michael Nyqvist, un grande attore e una grande persona, che avrei voluto molto al mio fianco, al festival.
Per quanto riguarda il processo, abbiamo organizzato alcuni workshop con esperti e con parenti di vittime di tumore al cervello, o con persone che ne sono state colpite in passato; il tutto per riuscire ad adottare un approccio realistico alla nostra storia. Ovviamente, in così poco tempo, non siamo riusciti ad andare molto a fondo. Gli attori non potevano usare nessuno dei loro metodi, a causa di questa frammentarietà, in particolare Nikolaj Lie Kaas ha dovuto riconsiderare il modo di trattare il suo personaggio. Senza un chiaro percorso drammaturgico per i personaggi, anch'io ho dovuto trovare un modo diverso per inserire una certa tensione. È stata dura, perché non è un film in cui il pubblico riesce a immedesimarsi facilmente.
Pensa che il pubblico apprezzerà il suo approccio?
Volevo che il pubblico si sentisse nella posizione di uno spettatore e non su una montagna russa di emozioni. È un tipo diverso di spettacolo. Nei film di finzione le regole sono molto rigide; i documentari prendono in prestito strumenti dalla finzione, ma il processo inverso sembra vietato. Ho usato una voce fuori campo per narrare i fatti, così da dare informazioni, ma anche per distanziare la storia dal pubblico. Non volevo rendere strappalacrime un film su un malato di tumore al cervello; è stata una scelta voluta quella di evitare un'opera tutta incentrata sulle emozioni del pubblico. Può sembrare anticonvenzionale, ma dovevamo tirare il sasso e vedere quello che succedeva; altrimenti la finzione sarebbe sarebbe stata asfissiante. Dovevamo spezzare le catene ed essere un po' più godardiani.
(Tradotto dall'inglese)
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