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CANNES 2019 Un Certain Regard

Mounia Meddour • Regista di Papicha

"È importante parlare di moda perché ha un lato maschile e un lato femminile"

di 

- CANNES 2019: La regista algerina Mounia Meddour ci parla del suo film d'esordio, Papicha, proiettato al Certain Regard

Mounia Meddour  • Regista di Papicha

Mounia Meddour era una giovane adulta quando lasciò l’Algeria per la Francia, dove frequentò il corso estivo di regia cinematografica a La Fémis di Parigi. Ha realizzato diversi documentari, e il suo primo lungometraggio del 2011, Edwige, è stato selezionato all’interno di numerosi festival. Il suo lungometraggio d’esordio, Papicha [+leggi anche:
recensione
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intervista: Mounia Meddour
scheda film
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, è in concorso nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes e racconta la storia di Nedjma, che ha uno spiccato interesse per la moda, e dei dilemmi che lei e le sue amiche universitarie devono affrontare di contro al crescente fondamentalismo. In Algeria il termine “papicha” è l’equivalente di hipster.

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Cineuropa: Com’è nato il film?
Mounia Meddour:
Papicha è un racconto autobiografico. Sono cresciuta in Algeria, dove ho vissuto fino alla maggiore età, e quando studiavo per la laurea triennale vivevo all’università come le ragazze che si vedono nel film. Quindi ci sono molti elementi reali che vengono dalla mia esperienza, come la solidarietà tra ragazze, la dolcezza della vita e le storie d’amore. Dall’altro lato, però, c’erano anche tutte le difficoltà che dovevamo affrontare: per esempio, i black out e i tagli sulla fornitura d’acqua, e la situazione politica in Algeria. Inoltre, ovviamente, ci sono elementi di finzione, specialmente nelle scene al culmine del film.

Il film si svolge nell’Algeria del fondamentalismo anni ’90. Perché ha scelto questo periodo?
Negli anni ’90 ci fu una crescita del livello di radicalismo che poi avrebbe portato alla Guerra civile algerina e al “Decennio nero”. Morirono 150 mila persone, e molte restarono traumatizzate dagli eventi. Chiunque perse un membro della propria famiglia al tempo: fu una tragedia enorme. Le intimidazioni erano all’ordine del giorno. Alle donne era vietato andare a lavorare e all’università, e l’aria intimidatoria era palpabile. Ci furono donne assassinate per essersi rifiutate di mettersi il velo. Per me, era un contesto interessante. Ai miei occhi il film riguarda proprio l’emancipazione di Nedjma, che più o meno rappresenta l’immagine di ogni donna. Lei continua a lavorare e a vivere la propria vita nonostante tutti i pericoli. 

Il film vede Nedjma organizzare una sfilata di moda. Perché ha deciso di utilizzare la moda in questo modo?
La sfilata di moda era importante. Era vitale parlare di moda perché ha un lato maschile e uno femminile che si riflettono nella società, composta da uomini che dominano lo spazio pubblico e da donne che restano più “dietro la scena”.

Il film tratta anche di amicizia e sorellanza. Come ha dipinto questi personaggi?
Volevo una gamma complessa di personaggi. Nedjma è emancipata, ma è anche fragile e forte, cosa che la rende interessante. Lei proviene da una famiglia di classe operaia, e l’università è un luogo di libertà lontano da casa. La sua amica Kahina sogna di andare in Canada, mentre Wassila è più sentimentale e Samira religiosa.

Quando si presenta, la violenza arriva sempre in maniera molto scioccante. Era questo il suo intento?
Quando c’è una bomba o un omicidio, è sempre uno shock. Persino durante la guerra civile, la violenza era la norma. La domanda che mi sono posta era come trattare la violenza. Per me era importante essere realistica e non distogliere lo sguardo.

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(Tradotto dall'inglese da Gilda Dina)

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