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KARLOVY VARY 2019 East of the West

Michal Hogenauer • Regista di A Certain Kind of Silence

"È necessario trovare il proprio linguaggio cinematografico e la propria poetica"

di 

- Cineuropa ha parlato con il regista esordiente ceco Michal Hogenauer del suo film A Certain Kind of Silence, la banalità del male, il cinema di genere e il minimalismo

Michal Hogenauer  • Regista di A Certain Kind of Silence
(© Karlovy Vary International Film Festival)

Il regista e sceneggiatore ceco Michal Hogenauer ha presentato il suo lungometraggio di debutto, A Certain Kind of Silence [+leggi anche:
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intervista: Michal Hogenauer
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, all’interno del concorso East of the West della 54a edizione del Karlovy Vary International Film Festival. Cineuropa ha incontrato il regista emergente per parlare del suo esordio, delle fonti di ispirazione e le influenze che lo hanno plasmato, ma anche più in generale del cinema di genere e di quello minimalista.

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Cineuropa: La trama del suo lungometraggio di esordio è cambiato nel corso dei suoi sette anni di lavorazione. Da cosa è dipesa la sua forma definitiva, visto che in un primo tempo ne era stata annunciata una leggermente diversa?
Michal Hogenauer: Ho cominciato partendo da diverse fonti di ispirazione. Una era l’argomento e il processo della manipolazione: come gli individui si manipolino l’un l’altro e come a loro volta vengano manipolati dalla società. Un’altra era Philip Zimbardo e la banalità del male, mi affascinava nella misura in cui riguarda ciò che sta accadendo intorno a noi, come ad esempio il terrorismo. Mi interessavano anche i programmi di studio all’estero come l’Erasmus, il modo in cui le persone se ne vanno dal proprio paese e i loro rapporti familiari e sentimentali vengono facilmente interrotti. Poco a poco, tutti questi diversi filoni hanno cominciato a sovrapporsi. Quando gli spunti sono stati sufficienti, è servito del tempo affinché trovassi la forma più semplice e minimalista possibile da far assumere alla storia.

Durante la preparazione di A Certain Kind of Silence ha lavorato anche alla programmazione di festival. È riuscito a tenere separati i ruoli di sceneggiatore-regista e di selezionatore?
Guardare film di registi esordienti più giovani di me, vedere cosa stesse succedendo nel cinema mi ha ovviamente influenzato, in modo allo stesso tempo positivo e negativo. Da una parte mi ha dimostrato come fosse effettivamente possibile realizzare un film, dall’altra che molti film appena mediocri riescono comunque a entrare nei circuiti di distribuzione.

Ha rivisto il suo script alla lue di queste considerazioni?
La trama originale seguiva una studentessa in Erasmus che inizia a lavorare in un bar, dove conosce una comunità che abita in una fattoria in mezzo al bosco. Questa era la versione originale dello script. Poi mi sono accorto di avere già visto parecchi film in cui si parlava di comunità hippy di questo genere. A quel punto ho cominciato a modificare la storia, trasferendola da una grossa comunità a una singola famiglia. Sicuramente esistono altri film che hanno trattato un argomento simile, come La fuga di Martha di Sean Durkin. Questo è il tipo di film con il quale riconosco una certa somiglianza, così come con l’opera di Yorgos Lanthimos. Anche Michael Haneke mi è stato di modello, in un certo senso, in termini di linguaggio filmico e visivo. Il che non significa voler copiare tutti questi registi. È necessario trovare il proprio linguaggio cinematografico e la propria poetica. Dopo aver terminato le riprese ho visto la miniserie documentaria Wild Wild Country, ed è stata come un compendio di tutto ciò che avevo studiato per il mio film.

A Certain Kind of Silence può far pensare a una sorta di “horror sociale”, sembra quasi che viri verso un film di genere. Se ne era reso conto durante la realizzazione del film?
Amo i film di genere e specialmente i thriller, ma il problema è che sono spesso prevedibili. Ad ogni modo, attirano molto il pubblico per via dell’atmosfera e della suspence che sanno creare. Registi come Haneke e Lanthimos sanno lavorare benissimo su questi elementi pur impiegando i mezzi contenuti di un film minimalista. È questo ad affascinarmi: il modo in cui linguaggio filmico, inquadrature e fotografia semplicissime possono generare risultati sbalorditivi. Ed è proprio questo che ho cercato di fare col mio film.

C’è una certa somiglianza tra il suo film e Domestique [+leggi anche:
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intervista: Adam Sedlák
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di Adam Sedlák, non trova?
Abbiamo lavorato ai nostri film in contemporanea e siamo amici, perciò ci è capitato di parlare dei nostri progetti. Questo non vuol dire che ci siamo influenzati a vicenda; ci limitavamo a sapere a cosa stesse lavorando l’altro e abbiamo avuto gli stessi giorni di riprese, 25. Inoltre, ci piacciono film simili: quelli che ho citato prima sono anche i registi preferiti di Adam, oltre a Chantal Akerman e Roman Polanski, quindi è normale trovare motivi, gamme cromatiche o sonorità simili, ad esempio. Facciamo parte della stessa generazione e abbiamo gusti affini, ma non penso che sia qualcosa di sintomatico di tutto il cinema ceco contemporaneo.

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(Tradotto dall'inglese da Michela Roasio)

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