Karim Sayad • Regista di Mon cousin anglais
"C'è chiaramente qualcosa di personale nei miei film"
- Il regista svizzero-algerino Karim Sayad parla del suo ultimo film Mon cousin anglais, in concorso al Toronto Film Festival
Durante la sua prima al Festival di Toronto nella sezione TIFF Docs, Karim Sayad ci parla con sincerità di Mon cousin anglais [+leggi anche:
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intervista: Karim Sayad
scheda film], un film che l’ha aiutato ad avvicinarsi alla sua famiglia ma anche alla sua storia personale.
Cineuropa: Dove nasce l’idea del suo film? Come ha lavorato con suo cugino per ottenere questa atmosfera intima e naturale che permea tutte le scene?
Karim Sayad: Il film nasce da ciò che accade in questo momento, dalle questioni legate all’emigrazione. Ci sono due rappresentazioni un po’ caricaturali dei migranti nella stampa e in determinati film: sia che si tratti di cattivi che vengono a invaderci, sia di poveri che dobbiamo aiutare.
Vent’anni fa mio cugino è venuto in Inghilterra. Andai a trovarlo a Londra, non aveva documenti, un immigrato che si può definire “economico”. Tre anni fa mi dice che vuole tornare in Algeria per sposarsi. Ho pensato di avere alla fine una trama drammatica per il mio film. Potevo raccontare la storia di un esiliato che vuole ritornare. La mia ambizione era quella di fornire una rappresentazione diversa, più complessa dei migranti. Oltre a questo, a livello di realizzazione e al contrario di quello che avevo fatto nei miei film precedenti, volevo affrontare l’intimità dei personaggi che provengono dallo stesso contesto sociale. Per una volta volevo trattare l’intimo, filmare delle persone a casa, essere più vicino a loro. Non vedevo altri mezzi se non la famiglia per poter filmare questa intimità. Ho così deciso di parlare di mio cugino, a cui sono molto legato e che mi ha consentito di filmare la sua crisi dei quarant’anni.
Nel suo secondo film, esamina di nuovo il concetto di mascolinità. Secondo lei, è facile per un uomo soddisfare le esigenze di una società contemporanea sempre più votata alla prestazione?
Questa domanda è davvero interessante. Mon cousin anglais è il mio terzo film, ma ritorno spesso sugli stessi personaggi, ovvero gli uomini algerini dei quartieri popolari. Ho, in qualche modo, creato una sorta di trilogia senza averla pianificata a priori. Riflettendoci, credo che questa scelta sia un po’ incosciente. Ciò che volevo era piuttosto esplorare il mio “negativo”, il mio “contrario”. Io sono nato in Svizzera e quando ero in Algeria con i miei cugini, dicevo a me stesso: se fossi nato qui, cosa farei? Fare questo film è stato un modo per interrogarmi su questo e di confrontarmi in un certo modo con i miei privilegi. Necessariamente, immagino che la questione della mascolinità arrivi da lì, da quell’incontro, dal bisogno di confrontarmi con il mio riflesso, con le persone che sono nate dall’altra parte del mare.
In Algeria, gli uomini sentono la pressione della famiglia, devono mostrarsi forti. Dalle mie parti, sono stato spesso messo a confronto con un’immagine stereotipata del giovane arabo, un po’ teppista, bastardo con le donne, super misogino. I miei film mi permettono di interrogarmi su questa tematica, di dimostrare che non è nella loro natura essere dei bastardi, sono piuttosto le loro condizioni socio-economiche e politiche che li racchiudono in questa cornice. Credo si tratti spesso di un incrocio fra le questioni di genere e quelle coloniali. Quale visione si ha in Occidente dell’uomo o della donna araba. I film ci permettono di dialogare, di discutere su questi argomenti.
Finora, ha girato dei film in Algeria o film che parlano del popolo algerino. È questo un modo per raccontare anche la sua storia personale?
Non avrei mai fatto cinema, se non ci fosse l’Algeria e non avrei mai girato un film se non fossi nato laggiù. C’è chiaramente un elemento personale nei miei film. In Algeria, c’è evidentemente un universo personale e sociale che mi appassiona.
Con Mon cousin anglais, sono arrivato alla fine di una sorta di processo che non è stato pertanto intenzionale. Quest’ ultimo film, è una specie di punto di arrivo perché ho avuto il coraggio, la forza e l’esperienza necessaria per affrontare la mia famiglia, per prendere posizione in rapporto a quello che sono. Quando discuto con mio cugino si comprendono meglio i legami che ci uniscono. Appaio un po’ nel film ma si capisce che non sono nato in Algeria. Mi hanno detto spesso: com’è che non sei nato in Algeria ma parli spesso di questo Paese?
(Tradotto dal francese da Silvia Scarpone)