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BERLINALE 2020 Panorama

Uisenma Borchu • Regista di Black Milk

"Per me, è nero tutto ciò che non vedi; non lo riconosci"

di 

- BERLINALE 2020: Abbiamo incontrato la regista-sceneggiatrice-attrice Uisenma Borchu per saperne di più del suo secondo film, Black Milk

Uisenma Borchu  • Regista di Black Milk

La regista, sceneggiatrice e attrice Uisenma Borchu ha presentato il suo secondo lungometraggio, Black Milk [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Uisenma Borchu
scheda film
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, nella sezione Panorama della 70° edizione della Berlinale. Nata in Mongolia nel 1984 e poi trasferitasi nella Repubblica Democratica tedesca all’età di soli quattro anni, Uisenma ha studiato documentario e televisione presso l’università della Televisione e del Cinema di Monaco dal 2006 al 2015. Cineuropa l’ha intervistata a Berlino per saperne qualcosa di più sul lungometraggio.

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Cineuropa: Da cosa è nato questo nuovo film?
Uisenma Borchu: Tutto è nato da una foto di mio cugino, Gunsmaa Tsogzol, che interpreta Ossi nel film, scattata nel deserto di Gobi. Quell’immagine mi incuriosiva e mi ero sempre chiesta perché ci pensassi costantemente. Inoltre, mi chiedevo: “Che cosa farei in questo momento se non avessi lasciato la Mongolia quando avevo quattro o cinque anni?”. Mia madre mi ripeteva in continuazione queste parole: “Se non avessimo lasciato la Mongolia, oggi tu saresti una nomade”.

Che conseguenze ha avuto per lei dover lasciare il paese?
Visto che ero così piccola non è stato facile abbandonare tutto. Inoltre, credo che ci sono alcune tracce delle nostre esperienze passate che non ci abbandonano mai. Come se non bastasse vivevamo ai margini della società nella RDT e i neonazisti si riunivano davanti le nostre case e protestavano contro la nostra presenza. Sai, tutto questo mi rendeva perfettamente consapevole di cosa fossi.

In che anno vi siete trasferiti in Germania?
Ci siamo trasferiti nella Germania orientale appena prima dei disordini del 1988 e della caduta del Muro. Mia madre aveva studiato nella RDT negli anni ’70 e aveva sempre fatto la spola tra quei paesi socialisti, tra la Mongolia e la RDT appunto. Così è iniziato tutto. Io ovviamente le sono grata, perché mi è piaciuto studiare in Germania, sebbene non fosse esattamente una passeggiata agli inizi degli anni ’90. L’atmosfera era anche piuttosto triste.

Qual è il significato recondito che si nasconde dietro il latte nero?
Credo che il latte nero sia il simbolo dell’autoaffermazione. Per me è nero tutto ciò che non vedi, che non riconosci. Certo, si pensa al fatto che il latte, quello materno, sia bianco, ma in realtà quel potere che non riconosci come uomo, o in questo caso come donna, è ben nascosto e per me è nero. Proprio per questo direi che non ho seguito la ragione nello scrivere la sceneggiatura; ogni parola sgorgava fuori dalla mia immaginazione, dal mio cuore.

L’immagine della Mongolia che ci propone nel film è variopinta e incentrata soprattutto sulla quotidianità. Perché ha optato per questa scelta estetica?
Non volevo riproporre il solito ritratto idealizzato del mio paese, ma anzi, desideravo essere quanto più grezza e realistica possibile nella sua rappresentazione. Volevo avere un rapporto intimo e schietto con i nomadi, e per me questo significa limitarmi a metterli in scena e mostrare come vivano davvero. Non volevo che ci fosse della distanza tra noi e loro e che si sentissero come parte della nostra grande famiglia. Per questo ho deciso di essere molto concreta.

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(Tradotto dall'inglese da Emanuele Tranchetti)

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