Bonifacio Angius • Regista di I giganti
“I giganti è una dichiarazione d'amore”
di Teresa Vena
- Il regista italiano presenta a Locarno, in competizione internazionale, un thriller originale con elementi western
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intervista: Bonifacio Angius
scheda film], un thriller con elementi western ambientato in un piccolo villaggio della Sardegna, in concorso al Locarno Film Festival. Il film riunisce un gruppo di amici che hanno difficoltà a relazionarsi con gli altri e che cercano rifugio nell’alcool e nella droga. Abbiamo incontrato il regista, che ci ha parlato della sua ispirazione e del concetto estetico del film.
Cineuropa: Qual è stato lo spunto e l’ispirazione per il film?
Bonifacio Angius: L’idea è nata alcuni anni fa ma la produzione non è iniziata subito. Poi ho ripreso quest’idea e ho scritto il copione molto velocemente. In quattro settimane, era pronto, e sei settimane dopo, abbiamo iniziato le riprese. È stato girato nel periodo del lockdown totale durante la pandemia in Italia, in un piccolo villaggio in Sardegna. Abbiamo dovuto seguire i protocolli di salute e sicurezza, che ci hanno costretto a stare ancora più insieme. Siamo diventati una famiglia, e l’intero progetto mi ha fatto sentire come se fossi in preda alla frenesia. Svolgevo moltissimi ruoli, ero il regista, il produttore, il montatore nonché uno degli attori, e alla fine guardando il film mi sono chiesto: “Ma chi lo ha realizzato?”. La pandemia è stata un momento molto difficile per me, una terribile sofferenza. Ho pensato veramente che quella sarebbe stata la fine di tutto e che non sarei più riuscito a realizzare film. È per questo che ho voluto inserire all’interno del mio lungometraggio personaggi estremamente complessi, così da creare un contrasto con la tendenza di oggi e semplificare il tutto.
Le droghe corrompono tutto quello che facciamo e abbiamo?
Le droghe rappresentano, prima di tutto, un elemento visivo per me. Ho utilizzato questo tema per realizzare una narrativa semplice e immediata. Il film si focalizza soprattutto sull’idea che le persone hanno dell’autodistruzione. Non vedo questa forza in nessun essere umano, ma più che altro nell’umanità in generale. Per questo la nostra responsabilità ha una valenza ancora più globale. Il film è pensato per essere un’opera filosofica; può essere anche considerato come un atto di autosabotaggio. Inoltre, ha lo scopo di stabilire un equilibrio tra il tragico e il comico. Presenta un qualcosa di destabilizzante nonché di nostalgico e romantico.
Come ha sviluppato il concetto estetico del film?
Mi sono ispirato a La grande abbuffata di Marco Ferreri, al quale ho voluto aggiungere una prospettiva western. Considero il mio film simile alle opere di Sergio Leone e Luchino Visconti. Le parti più belle, a mio parere, sono i flashback che richiamano l’atmosfera dei film di Visconti. Volevamo riprodurre l’estetica western utilizzando la giusta tecnica. Abbiamo fatto ricorso a degli obiettivi che non vengono più utilizzati oggi e che sono stati molto difficili da trovare, ma ci hanno permesso di avere le immagini in 35 mm. Il contrasto tra luci e ombre era molto importante, doveva ricordare il cosiddetto Spaghetti Western.
Durante il processo di ideazione del film qual è stato l’elemento ritenuto da lei più importante?
Il lungometraggio ha la stessa struttura di una tragedia greca. Ne presenta tutti gli elementi – la divinità, la colpevolezza, la catastrofe. E soprattutto, il tema dell’amore è l’elemento principale del film. Alcuni ritengono che questo lungometraggio sia misogino perché le donne non sono presenti. Ma in realtà è proprio la loro assenza fisica che le rende così essenziali nella storia. Il film è una dichiarazione d’amore, in particolar modo per la mia fidanzata. I personaggi hanno un rapporto difficile con l’amore e ci pensano costantemente.
(Tradotto dall'inglese da Ilaria Croce)