Sylvie Ohayon • Regista di Haute couture
“Saper fare qualcosa, è questo che può rendere una persona veramente soddisfatta di sé”
- La scrittrice-regista francese ha presentato il suo nuovo film, e abbiamo colto l’occasione per parlare con lei di alta moda e dell’importanza di imparare un mestiere
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intervista: Sylvie Ohayon
scheda film], il secondo lungometraggio della scrittrice-regista francese Sylvie Ohayon dopo Papa Was Not a Rolling Stone [+leggi anche:
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scheda film], racconta l’incontro tra Esther (Nathalie Baye), una capo-sarta della Maison Dior prossima alla pensione, e Jade (Lyna Khoudri), una giovane donna problematica della banlieue parigina, che Esther decide di aiutare insegnandole un mestiere. Il film è stato presentato al Teatro Petruzzelli di Bari, al 12° Bif&st, con una Ohayon emozionatissima al cospetto di uno dei suoi registi preferiti. “Avevo Marco Bellocchio in sala davanti a me, lo amo da quando ero adolescente, e per me è difficile proclamarmi regista davanti a qualcuno del suo spessore e livello”.
Cineuropa: Dal titolo, Haute couture, qualcuno potrebbe aspettarsi un film più frivolo. Invece, è una commedia profonda che parla di trasmissione, di valore del lavoro, di come le donne possono aiutarsi tra loro.
Sylvie Ohayon: Ho fatto questo film principalmente per mia figlia, Jade, con cui ho avuto problemi relazionali soprattutto nella sua fase adolescenziale. Lei mi respingeva, e io le dicevo: “Jade, tu mi rifiuti come madre, allora trovati un’altra figura femminile che possa aiutarti a crescere e a diventare ciò che vuoi essere”. Volevo dire a mia figlia che voglio che sia felice e che trovi qualcuno che la aiuti a imparare un mestiere, perché un mestiere ti salva la vita. Si dice nel film: “Tutti parlano di lavoro, io voglio darti un mestiere”. Saper fare qualcosa, è questo che può rendere una persona veramente soddisfatta di sé.
Quando ha deciso di calare questo tema nel mondo dell’alta moda?
Qualche anno fa accompagnai una mia amica da Chanel perché avevamo un dramma da gestire: doveva sposarsi ed era rimasta incinta qualche mese prima del matrimonio, bisognava quindi modificare l’abito da sposa, per nascondere il pancione. Ricordo che a un certo punto arrivò la sarta e cominciò a parlare con questo accento parigino forte – un po’ alla Edith Piaf, per intenderci – poi però iniziò a lavorare e le sue mani erano magiche, rimasi stupefatta dalla sua bravura. Pensai di voler trasferire questo in un film. A ciò si è sovrapposto il problema con mia figlia: pensando a quale donna potesse renderla felice, ho immaginato proprio quella donna. Per il resto, sono orgogliosa del mio paese e del suo artigianato, così come amo l’Italia, ci vengo spesso: sono entrambi paesi di bellezza. Quanto alla Maison Dior, sono stati subito d’accordo a sviluppare questo lavoro, senza condizioni. Hanno semplicemente letto la sceneggiatura.
Il film ritrae il lavoro negli atelier in modo molto dettagliato. Come si è documentata?
C’è stato un grosso lavoro di ricerca. Sono stata da Chanel, da Dior, ho parlato con le sarte, ho chiesto loro di raccontare la loro vita. Ho chiesto a Dior di farmi entrare negli atelier e di vedere come lavorano. Quello che ho chiesto a queste donne è di non dirmi cose che si possono trovare su un libro o su un dizionario, ma di darmi qualche aneddoto, su come si ingrassa un ago per farlo passare bene nel tessuto, per esempio.
La banlieue da una parte e la Maison Dior dall’altra. Come ha lavorato sull’aspetto visivo del film?
L’idea era di usare dei colori caldi quando la ragazza è a casa sua, nella cité, e invece rendere più freddo e maestoso l’atelier. I veri atelier non appaiono così, gli atelier Dior sono come una clinica, è tutto bianco, perché la luce deve riflettere. Ma io volevo un po’ di Pompadour, di Haussmann, la vecchia storia della moda francese, quindi ho ricostruito l’atelier secondo la mia idea, come se fosse un tempio o il castello di Versailles.
Come ha scelto le due protagoniste?
All’inizio avevo in mente Catherine Deneuve, ma poi molto presto ho pensato a Nathalie Baye, che è una grande attrice. Lyna Khoudri l’avevo vista in Non conosci Papicha [+leggi anche:
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intervista: Mounia Meddour
scheda film] e mi era piaciuta, però non mi convinceva la scelta della classica ragazza araba della banlieue. Poi ho pensato che anche io vengo dai quartieri per così dire brutti del nord di Parigi, quindi fondamentalmente condividiamo lo stesso background, sa che cosa significa vivere laggiù. Quanto ai provini, non li ho fatti nel modo tradizionale, ma da brava francese ho invitato le persone a cena e abbiamo discusso davanti a un buon piatto.
Lei è principalmente una scrittrice, ha scritto sei libri. Che cosa l’ha spinta a passare dietro la macchina da presa?
Il mio primo libro, Papa Was Not a Rolling Stone, ebbe molto successo, tutti volevano adattarlo al cinema. La mia amica Sylvie Verheyde mi disse: fallo tu! Io non ho mai studiato cinema, ma lei: “Tu prova a prendere la telecamera e gira le immagini che hai in testa”. Così ho fatto quel primo film e ho adorato fare cinema, perché ti permette di riscrivere la storia, di riscrivere il mondo attraverso le immagini, è magico. È un po’ come essere Dio, decidi della vita delle persone.