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VENEZIA 2022 Concorso

Alice Diop • Regista di Saint Omer

“Questo è un film basato sulle parole. Ma con tante parole hai anche bisogno di silenzi”

di 

- VENEZIA 2022: L’ultimo lavoro della regista francese è un film sbalorditivo e un vero pugno nello stomaco

Alice Diop • Regista di Saint Omer

Laurence Coly (Guslagie Malanda) ha ucciso la figlia di 15 mesi. L'ha abbandonata sulla spiaggia e la bambina è annegata: qualcun altro ne ha ritrovato il corpo. La scrittrice Rama (Kayije Kagame) decide di partecipare al processo. Ma l'imputata non sa perché ha commesso il crimine, e ora è lei a chiedere aiuto. Abbiamo parlato con Alice Diop, la regista del film in concorso a Venezia Saint Omer [+leggi anche:
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intervista: Alice Diop
intervista: Kayije Kagame
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Cineuropa: Siamo soliti scherzare sugli attriti tra madri e figlie, e alziamo gli occhi al cielo di fronte a questi conflitti. Ma c'è molto dolore, risentimento e amore che li accompagnano. Perché ne ha voluto parlare?
Alice Diop: Proprio per questo motivo. Questa connessione è del tutto inspiegabile, eppure condividiamo tutti la sua intensità. Ecco perché ero così sconvolta quando ho sentito quella storia per la prima volta, ed è per questo che ho deciso di partecipare al processo della persona che ha davvero ucciso sua figlia in questo modo. Tutte le donne che erano lì – perché la maggior parte dei presenti erano donne – giornalisti, avvocati e giudici, eravamo seduti di fronte a lei, sapendo che aveva commesso un omicidio. Ci stavamo ponendo delle domande sul nostro rapporto con la maternità. È un argomento così universale, in tutte le sue contraddizioni e conflitti.

Vengo da un paese in cui l'aborto è sostanzialmente illegale e ci sono anche casi di infanticidio. Ma quando succede, le persone non vogliono parlarne; non vogliono ascoltare queste madri. Lei lo fa.
Si potrebbe definire ciò che Laurence ha fatto come una sorta di aborto tardivo. La bambina aveva 15 mesi, ma è come se non fosse mai esistita. Non ha denunciato la sua esistenza alle autorità: la stava rimandando nel limbo, si potrebbe dire. Ma il problema dell'infanticidio è che è ancora il più grande tabù, forse l'unico che esiste al giorno d'oggi. È difficile affrontarlo e sentirne parlare: osservare le persone che hanno commesso questo crimine. Ecco perché ho deciso di parlare di questo argomento terribile e delicato attraverso la fiction. O attraverso Marguerite Duras [Rama tiene una conferenza sul suo lavoro nel film]. In questo modo, ho potuto provare a sondare questo lato oscuro di una donna.

C'è questa scena d'archivio che ho inserito all'inizio, di donne che si radono la testa [in tempo di guerra]. Vengono giudicate, proprio lì sulla piazza. Sono vittime? Laurence lo è? È colpevole, lo sappiamo. È anche una vittima, ma di cosa? Non sono qui per esprimere giudizi morali; cerco di capire.

È interessante che lei rimanga in quella stanza per così tanto tempo e che si attenga al processo. Non ci sono flashback, né abbellimenti. Solo la storia di questa persona.
Penso che le ragioni siano sia morali che cinematografiche. Morali perché come potrei ritrarre un atto che non ha spiegazione? Neanche lei riesce a spiegarlo. Quando i giudici le chiedono per la prima volta: "Madame Coly, perché ha ucciso sua figlia?" lei dice: “Non lo so; spero che questo processo mi aiuti a capire". È un mistero anche per lei, e chi sono io per cercare di risolverlo per lei?

Se avessi cercato di visualizzarlo e mostrarlo – e a patto di poterlo fare in un modo che non risultasse osceno – la mia visione sarebbe stata comunque limitata. Inoltre, non tenterei mai di ricostruire un crimine. Non è qualcosa che mi interessa come regista; non voglio aggiungere tali immagini ai film che realizzo. Credo che ci sia un potere nella narrazione cinematografica che va oltre le immagini. Questo è un film basato sulle parole, su testimonianze diverse, quindi è tutto molto verbale. Ma con tante parole servono anche i silenzi. È anche per consentirti di digerire queste parole, per consentire agli spettatori di creare la propria visione. Penso che la voce fuori campo e ciò che accade fuori dallo schermo sia importante quanto ciò che viene effettivamente mostrato. Ho girato un film intitolato La Permanence [+leggi anche:
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[nel 2016], in cui mostravo un dottore che cercava di aiutare i rifugiati. Avevano sofferto a causa della violenza dell'esilio, ma allo stesso modo, tutti i loro racconti non erano accompagnati da alcuna immagine. Non avrei mai osato filmarla.

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(Tradotto dall'inglese)

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