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Italia

Antonio Romagnoli • Regista di Polvere

“La domanda è: con il benessere, eliminiamo la violenza psicologica o le diamo solo un’altra forma?”

di 

- Al Balkan Film Festival di Roma, abbiamo parlato con il regista del suo film che dettaglia il graduale evolversi di una relazione amorosa in un rapporto malato da cui è difficile uscire

Antonio Romagnoli • Regista di Polvere

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, opera prima del giovane regista calabrese Antonio Romagnoli, segue l’inizio di una relazione tra un uomo e una donna (Saverio La Ruina e Roberta Mattei) e il suo graduale evolversi in una spirale di violenza psicologica, un rapporto malato che si consuma tra le mura di casa e da cui lei non riesce a liberarsi. Il film è stato proiettato fuori concorso al 5° Balkan Film Festival di Roma, dove il regista ha anche partecipato a un panel sulla nuova cinematografia italo-balcanica. “Penso che la coproduzione italo-balcanica sia una nuova frontiera che offre buone opportunità”, ci ha detto, “sono due mondi che ancora stanno imparando a conoscersi ma che hanno molte similitudini, tematiche e culturali”.

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Cineuropa: Tra questi temi, c’è la condizione femminile, al centro di vari film presentati al festival. Parliamo del suo, che nasce da un testo teatrale, Polvere. Dialogo tra uomo e donna di Saverio La Ruina. Cosa pensava avrebbe aggiunto la trasposizione cinematografica?
Antonio Romagnoli
: Vidi lo spettacolo di Saverio a teatro e rimasi colpito dal suo modo di recitare, molto cinematografico, affascinante, musicale, e anche dal suo impianto di scrittura. Già la sera della prima gli dissi che avrei voluto farne un film, quindi abbiamo scritto insieme la sceneggiatura, mentre lo spettacolo ha continuato a girare, anche in America, Argentina, Francia... Ciò che mi ha spinto a portarlo al cinema è l’uso dei volti dei personaggi: per questo tema era importante andare nel dettaglio di alcune cose, per far percepire il disagio crescente. È stata la curiosità di vedere come il mezzo cinematografico potesse aumentare questa tensione: da alcune proiezioni le persone sono uscite mentalmente devastate.

Come avete lavorato sull’adattamento? Avete fatto dei cambiamenti rispetto al testo originale?
Molto è rimasto, quello che abbiamo cambiato è l’arco temporale: la scena di sesso, per esempio, culmina con tutta una serie di scene che mentre in teatro si svolgevano in tempi diversi, nel film le abbiamo inserite in un’unità di tempo e di azione, per trasmettere questo senso di ansia e angoscia, di violenza e ripetitività. La maggior parte del film si svolge in una sera, ma in realtà potrebbe svolgersi in due o cinque anni, da quando si conoscono a quando lui vive a casa di lei e l’ha ormai posseduta del tutto. Mi piaceva l’idea che il grosso avvenisse in un tempo breve che funge da detonatore, nelle prime due-tre scene ci sono alcuni segnali, poi inizia il delirio dal quale è difficile uscire.

Il film comincia a colori e termina in bianco e nero, ma lo spettatore se ne accorge solo alla fine. Come avete ottenuto questo effetto?
Con il direttore della fotografia Andrea Gatopoulos abbiamo utilizzato un procedimento che inganna un po’ lo spettatore. Dalla prima scena il film comincia già a desaturare, ma abbiamo adottato un processo che non è percepibile dall’occhio umano, per cui lo spettatore se ne accorge quando è troppo tardi, un po’ come la protagonista. Abbiamo cercato di restituire visivamente quello che lei vive psicologicamente.

Il film dettaglia efficacemente la progressione dei piccoli segnali premonitori che possono sfociare, con il tempo, nella violenza domestica. Come vi siete documentati?
È stato fatto un gran lavoro di ricerca nei centri anti-violenza, soprattutto da parte di Saverio in fase di scrittura dello spettacolo, parlando con le donne che hanno avuto questa esperienza. Molte, vedendo il film, sono rimaste pietrificate perché sono dinamiche che si ricreano con una certa sistematicità, che hanno radici culturali molto profonde, specialmente da noi in Italia, e che non risparmiano la nuova borghesia. I protagonisti non sono persone di provincia o di borgata, lei è un’insegnante, lui un fotografo. La domanda è: con il benessere, eliminiamo la violenza psicologica o le diamo solo un’altra forma? O forse riusciamo meglio a tenerla lontana da occhi indiscreti? Il finale è aperto. Ci sono le basi per un femminicidio, ma l’idea era di farne un’anatomia precedente al fatto di cronaca.

Il film è tutto girato a porte chiuse e con due soli personaggi. Come ha lavorato per diversificare le scene?
Abbiamo lavorato soprattutto sui contrasti e le ombre. Il film si apre con una scena colorata, lei è vestita di rosso e porta i tacchi, sembra più alta di lui, era un modo per far sentire il suo complesso di inferiorità: è questo che tante volte genera violenza. Poi abbiamo aumentato i contrasti, come nella scena del quadro, mentre prima la luce è più diffusa. Quindi c’è la macro scena della sedia, in notturna, con i chiaroscuri e con lui che non si vede quasi mai in primo piano. Questa è stata la più difficile da girare, perché bisognava rendere questa situazione funambolica tra il grave e il ridicolo, doveva avere un tono di surrealismo che fosse verosimile. Ho lavorato con due attori fantastici.

A proposito degli attori, come li ha diretti?
Roberta l’ho lasciata fare, di lei mi servivano reazioni anche impreviste, ho cercato di non darle troppi riferimenti. Ho diretto di più Saverio, perché volevo che fosse chirurgico nel suo modo di dire le cose, nel suo essere ripetitivo: batte le dita, ha sempre questa litania nella voce; non coontavano solo i contenuti, ma anche il modo di esprimersi. Lui tesse una tela, e lei ci cade.

Prossimi progetti, magari con i Balcani?
C’è un progetto, sempre con Saverio, che parte da un altro suo spettacolo teatrale, Italianesi, che parla degli italiani nel dopoguerra rimasti imprigionati nei campi di concentramento in Albania. Il film è stato già girato, ora è in fase di post-produzione con il supporto di Calabria Film Commission, e stiamo cercando un coproduttore in Albania.

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