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BERLINALE 2023 Berlinale Special

Mario Martone • Regista di Laggiù qualcuno mi ama

“Io e Massimo, figli inquieti della nostra città”

di 

- BERLINALE 2023: Il regista ci parla del suo documentario su Massimo Troisi, un omaggio “da regista a regista” all’opera del grande cineasta napoletano

Mario Martone • Regista di Laggiù qualcuno mi ama
(© Gianmarco Chieregato)

Il 19 febbraio 2023 Massimo Troisi avrebbe compiuto 70 anni. Un compleanno speciale che Mario Martone ha voluto celebrare con un documentario, Laggiù qualcuno mi ama [+leggi anche:
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, con il quale l’autore di Qui rido io [+leggi anche:
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ha portato il genio del grande attore, regista e sceneggiatore napoletano, scomparso prematuramente nel 1994, sugli schermi del 73° Festival di Berlino, dove è il film stato presentato nella sezione Berlinale Special.

Cineuropa: Come è stato accolto il film dal pubblico internazionale?
Mario Martone:
Ero in ansia, mi chiedevo quanti sarebbero venuti a vederlo, e invece la sala era piena, c’è stato un buon tam tam. Il pubblico e la stampa estera conoscono Troisi per Il postino, per loro tutto il suo universo è stato una scoperta. Ciò che li ha incuriositi di più è stato il rapporto tra me e lui, il nostro terreno comune (Napoli), oltre al legame che molti hanno evidenziato tra questo e il mio film su Eduardo Scarpetta, Qui rido io.

Tra le chiavi di lettura che dà dell’opera di Troisi, spicca l’accostamento alla Nouvelle Vague, a Truffaut, Massimo è definito l’“Antoine Doinel italiano”. Da cosa ha origine questa intuizione?
Questa sensazione che ci fosse un rapporto con la Nouvelle Vague nacque quando Massimo era ancora vivo, da alcune conversazioni con Enrico Ghezzi, una minoranza di noi era convinta che ci fosse questo legame. Troisi era considerato molto come attore comico, i suoi film erano presi come un collage di sketch, mentre invece io ho sempre pensato che ci fosse un filo cinematografico chiaro all’interno dei suoi film. Quindi mi sono preso la libertà di fare questa piccola provocazione. François Truffaut è un mito del cinema di tutti i tempi, ma forse aiuta a capire perché questi film possono essere guardati come qualcosa di più: sia per i temi che portavano, come l’amore, il personale che diventa politico (che è il cuore della Nouvelle Vague), sia per la libertà stilistica, le divagazioni, le lentezze combinate con improvvise accelerazioni e battute. Insomma, questa forma così libera del cinema di Massimo consentiva questo azzardo.

Oltre al focus sul Troisi regista, il suo documentario si distingue per l’utilizzo di materiali inediti, forniti da quella che è stata la co-sceneggiatrice di tutti i film di Massimo. Come è nata la collaborazione con Anna Pavignano?
Il confronto con Anna è stato importante, mi interessava capire chi fosse questa persona che scriveva i film con Troisi, e scoprire che era una giovane donna con la passione per la scrittura, ma sicuramente non una sceneggiatrice del cinema italiano – e Troisi all’epoca avrebbe potuto lavorare con chiunque. Era una ragazza che veniva dai movimenti, femminista, torinese. Tutta questa alterità rispetto a lui mi parlava di un Troisi aperto al mondo, alla dialettica Nord-Sud, uomo-donna: la conversazione con lei mette a fuoco questi aspetti. Da un’altra parte, il materiale che lei aveva – appunti, foto, registrazioni intime – era preziosissimo, e si è fidata a metterlo nelle mie mani. Inoltre, per me era fondamentale poter montare i film di Massimo, cosa non facile dal punto di vista dei diritti: i produttori hanno fatto un ottimo lavoro.

Riguardo agli intervistati, ha scelto di sentire persone che non l’hanno conosciuto personalmente. Perché?
Ho voluto fare un documentario su Troisi come su un pittore del ‘400, partire dalle sue opere e dalle tracce che possono venir fuori dai foglietti e le voci registrate, e poi coinvolgere una serie di persone con cui leggere queste tracce, da Paolo Sorrentino a Francesco Piccolo, che non hanno conosciuto Troisi, ma per i quali i suoi film sono stati importanti. Volevo dialogare con l’autore, non con la persona o l’amico – tutto è stato già raccontato – e cercare di capire Troisi a partire dalla sua opera.

Il suo è un omaggio affettuoso, da regista a regista, in cui lei ci mette letteralmente la faccia. Lo aveva pensato così fin dall’inizio?
Non proprio. Ma dopo aver guardato i film e fatto le prime interviste, mi sono chiesto come fare a dare una struttura al documentario, non potendo intervistare Massimo direttamente. Alla fine con una certa ritrosia, poiché non amo stare davanti la macchina da presa, ho pensato che la cosa giusta da fare fosse dare a questo film la forma di un dialogo tra me e lui, tra due registi che condividono e guardano insieme. C’era quindi bisogno che comparissi anche io.

Troisi ha influenzato in qualche modo anche il suo lavoro?
Non saprei dirlo, a differenza di Sorrentino che parla di un’influenza precisa. Io ho sempre fatto un cinema molto diverso. Però quando Massimo vide il mio primo film, Morte di un matematico napoletano, ne rimase colpito e me ne volle parlare intimamente. Eravamo a Montpellier, al ristorante con altre persone del festival, e durante la cena lui non disse una parola. Poi, tornando in albergo, mi prese sotto braccio e cominciò a dirmi cose molto belle del mio film – e questo dice tutto di lui, del suo pudore, la sua eleganza, il non volersi mescolare alle chiacchiere. La Napoli che lui voleva sottrarre ai luoghi comuni la ritrovava in Matematico. Per quanto fossero diversi i nostri film, ci siamo intesi, sentivamo di essere entrambi figli inquieti della nostra città.

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