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BERLINALE 2023 Concorso

Giacomo Abbruzzese • Regista di Disco Boy

“Volevo fare un film di guerra nel quale entrambe le prospettive, entrambi i fronti vengono pienamente raccontati”

di 

- BERLINALE 2023: Abbiamo incontrato il regista tarantino per discutere del suo primo lungometraggio di finzione con protagonista Franz Rogowski

Giacomo Abbruzzese • Regista di Disco Boy

Abbiamo incontrato Giacomo Abbruzzese, regista di Disco Boy [+leggi anche:
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, in concorso alla 73° Berlinale. Il film vede Franz Rogowski nei panni di Aleksei, un immigrato clandestino bielorusso che si arruola nella Legione Straniera nella speranza di ottenere l’agognato passaporto francese. Frattanto, sul Delta del Niger, Jomo (Morr Ndiaye) combatte le multinazionali che minacciano il suo villaggio. Alla testa di un gruppo armato, un giorno rapisce dei cittadini francesi. A intervenire è proprio un commando della Legione, guidato da Aleksei.

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Cineuropa: Per quanto tempo ha lavorato su questo progetto?
Giacomo Abbruzzese: È un progetto che ho portato avanti per dieci anni, è stata una gestazione molto lunga. Fondamentalmente perché è un film molto costoso per essere un’opera prima ed è un film chiaramente arthouse, con un cast e scelte artistiche non immediatamente spendibili. Con tutto questo “cocktail,” oggi è molto difficile iniziare. [..] È stato un lungo processo, con quattro paesi e quattro coproduttori. Ho dovuto cambiare due volte i produttori francesi per trovare alla fine la configurazione migliore. Poi, due anni di Covid ci hanno bloccato. [..] Alla fine, il film in realtà è sempre quello dell’idea iniziale. Qualche giorno fa, durante una proiezione privata, un mio amico che aveva letto il trattamento otto anni fa mi ha detto: “Incredibile, il film è quello!”

Ho sentito molti registi dire di aver avuto la stessa esperienza, un ritorno al punto di partenza... Ma che cosa l’ha portata a raccontare questa storia in particolare?
Più cose. Da un lato, incontrai un ballerino che era stato soldato in una discoteca, il Divinae Follie [una discoteca pugliese, ndr]. Mi aveva spiegato questa “dicotomia” nel suo stesso corpo: il corpo del ballerino e quello del soldato. Apparentemente in opposizione, in realtà con tanti punti in comune: la disciplina, la coreografia e quasi un piacere per lo sforzo estremo, [di] tornare a casa distrutti e sfiniti. [..] Lì è nato un po’ il nucleo del film. Poi, da tanto volevo fare un film di guerra diverso dagli altri. Intendo dire che in tutti i film di guerra che conosco, l’altro non esiste – è solo vittima o nemico, ma l’altro dura due minuti sullo schermo.

Una massa informe…
Sì, [offrono] sempre e soltanto una prospettiva sola e questo accade anche nei grandissimi film di guerra. Volevo fare un film di guerra nel quale entrambe le prospettive, entrambi i fronti vengono pienamente raccontati e puoi comunque avere un’empatia per entrambi i personaggi in conflitto, i quali non “civettano” lo spettatore. Non sono né buoni, né cattivi. Uno è un mercenario, l’altro è un eco-terrorista. Non sono vittime ma sono personaggi che non si rassegnano ad immaginare le loro vite diverse.

Come mai il personaggio di Aleksei è proprio bielorusso?
È così da otto anni, non è mai cambiato. Certo, non l’ho adattato al contesto attuale. Quando ho scritto e portavo questo film in giro, molta gente non sapeva nemmeno dove fosse, la Bielorussia… Ero stato in Bielorussia e avuto un’esperienza lì. Ero stato invitato da dei dissidenti bielorussi e mi aveva colpito molto il posto, la gente… Ho immaginato un personaggio che scappava da lì. Sarebbe potuto anche essere russo, il problema è che se l’avessi reso russo – al di la’ di tutta la follia di oggi – con la Russia ti porti immediatamente dietro tutto un mondo di riferimenti, [un mondo] iconico molto più forte… [..] Il “tratto russo” sarebbe stato molto più pesante, più netto.

Com’è ricaduta la scelta su Rogowski?
Rogowski è legato al progetto da quasi cinque anni. Lo avevo visto in Victoria [+leggi anche:
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in un ruolo secondario e mi aveva molto colpito con questa carica di violenza e di energia che però restituisce sempre conservando una certa profondità.

Vorrei si soffermasse su due importanti aspetti tecnici: il lavoro di fotografia e quello relativo al paesaggio sonoro.
Hélène Louvart [la direttrice della fotografia, ndr] è stata per me in assoluto la collaboratrice più importante che abbia mai avuto nella mia carriera, sotto tutti i punti di vista. Nutro una grande stime artistica per il suo lavoro. Non è una direttrice della fotografia che vuole firmare costantemente il suo lavoro ed in questo vedo la sua grandezza. [..] Nel film, la luce non sembra mai fissa, non senti mai il set-up delle luci. La luce è sempre in movimento, qualcosa di naturale ma non naturalistico. [..] Il lavoro sul suono è stato molto importante. Ci abbiamo lavorato su come minimo per quattro mesi, forse cinque. [..] Tutta la concezione del suono è stata fatta in Italia e poi in Francia abbiamo avuto quest’idea di inserire questa specie di ultrasuoni, quasi subliminali… Ci sono degli “echi” del film che ritornano in momenti diversi, [..] insieme a dei ritorni “visivi,” come quello del fiume e dei colori della camera termica.

Sta già lavorando su nuovi progetti?
Ho tre progetti: un progetto di documentario internazionale e due film di finzione, entrambi italiani. Uno è ambientato a Taranto negli anni ‘60. [..] In qualche modo, Disco Boy è il mio film politico sulla Francia, la mia seconda opera sarà  un film politico sull’Italia. Ovviamente, dico “politico” nel senso più ampio del termine.

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