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BERLINALE 2023 Encounters

Stefano Savona • Regista di Le mura di Bergamo

"È il ritratto collettivo di una città che si ritrova dopo l’emergenza"

di 

- BERLINALE 2023: Con il regista abbiamo parlato del suo documentario sull’emergenza covid nella città di Bergamo nella primavera del 2020 e la successiva elaborazione da parte dei cittadini

Stefano Savona • Regista di Le mura di Bergamo
(© Marie Liss)

Quello che doveva essere un instant documentary è diventata una riflessione, dopo l’emergenza covid, sulla nostra relazione con il tempo, la vita e la morte. Con Stefano Savona, il regista del documentario Le mura di Bergamo [+leggi anche:
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intervista: Stefano Savona
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, presentato nella sezione Encounters alla Berlinale, abbiamo discusso del suo approccio ad una delle città più colpite dalla tragedia della pandemia.

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Cineuropa: Tu vivi in Francia. Quando nel marzo del 2020 sono state diffuse le prime drammatiche immagini, hai deciso di partire?
Stefano Savona
: Ho sentito tutti gli amici che vivono in quella zona e ho capito che la situazione era devastante. Ho subito pensato di chiamare i miei ex studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo e proporre di fare assieme quello che io avevo fatto da solo in altre situazioni di emergenza. Ho detto loro che se fossimo andati lì forse saremmo riusciti a raccontare questa storia. In quegli stessi giorni mi hanno chiamato i produttori di ILBE, a cui ho parlato del progetto.

Una produzione davvero insolita da parte della ILBE di Iervolino e Bacardi, che solitamente si dedica ai titoli di fiction con “impronta hollywoodiana”.
Si. Non credo avessero mai visto un mio film, sapevano che avevo fatto il documentario La strada dei Samouni [+leggi anche:
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intervista: Stefano Savona
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, premiato a Cannes nel 2018. Ho detto che ci saremmo presi il tempo necessario per girare e ho chiesto garanzie sul tipo di film che volevo fare. Non è come lavorare con un produttore che conosci bene, come il mio amico Marco Alessi, con cui ho fatto Samouni e Tahrir [+leggi anche:
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. ILBE non si aspettava tre anni di lavorazione e faticavamo a capirci reciprocamente. Strada facendo abbiamo trovato una chiave per finire il film. Abbiamo sempre avuto la massima libertà. La mia caratteristica è quella di andare nei posti e aspettare di capire cosa girare. Ma i miei film sono sempre stati autoprodotti e me lo potevo permettere.

Quindi siete tornati anche dopo l’emergenza?
Abbiamo capito che le cose che stavamo riprendendo non avrebbero avuto senso se non avessimo poi accompagnato i nostri protagonisti fino all’uscita da quell’incubo. Siamo rimasti a Bergamo quattro mesi consecutivi e poi siamo tornati costantemente nel corso di un anno e mezzo.

Che approccio avete adottato per girare il documentario?
Abbiamo cercato di stabilire dei rapporti più confidenziali con gli operatori sanitari e i volontari e lentamente abbiamo trovato delle aperture, senza mai forzare troppo. I media assediavano la città, perché la cronaca richiedeva immagini ogni giorno. Noi cercavamo di stare un passo indietro e questa cosa ci ha permesso con il tempo di arrivare vicino a dove succedevano le cose.

È simbolica l’immagine dell’uomo in ospedale con il respiratore che scrive a casa, come se fosse sul fronte a combattere una sua battaglia.
Scrive qualcosa che nessuno potrà mai leggere. Per me quell’immagine è molto importante. Mentre giravamo quella sequenza ho avuto la percezione esatta di quello che stavamo raccontando. Immagini crude che rendono l’assurdità di quanto accadeva, riassumeva l’aspetto surreale e drammatico.

Come hai pensato agli inserti con vecchi filmati?
L’idea è nata dall’esigenza che sentivo di ricostruire i racconti di coloro che avevano vissuto l’esperienza del coma indotto dai farmaci per l’intubazione e con cui ho parlato successivamente. Raccontavano di continuare a sentire il proprio corpo, gli stimoli esterni, e non poter comunicare. Con la sensazione di essere bloccati nel letto. Con quelle immagini del passato ho cercato di visualizzare i frammenti di ricordi sospesi in quel momento di sofferenza, ricordi positivi e negativi. Questa trama di ricordi si trasforma nel corso del film in ricordi coscienti. Abbiamo utilizzato il materiale di Cinescatti, archivio di pellicole amatoriali di Bergamo.

La città stessa ha un suo ruolo nel documentario.
La città è la protagonista del film. All’inizio queste persone in cura sono tagliate fuori dal loro mondo di relazioni, hanno solo memorie frammentarie. La loro guarigione è la guarigione della città, di un corpo sociale che ritrova finalmente il senso dello stare insieme. Il film è questo, il ritratto collettivo di una città che si ritrova dopo essere stata smembrata da quell’emergenza. Ritrovandosi, si riscopre anche cosa voglia dire essere cittadini.

Lo hai definito “film memoriale”.
Il film non si pone il problema politico delle emergenze sanitarie o della nostra relazione con il pianeta. Racconta cosa è stato il covid in un luogo specifico e come trarre insegnamento dal punto di vista della relazione con il tempo, la vita, la morte, le generazioni. Tutti contemporaneamente, nello stesso luogo, hanno fatto i conti con questo, indipendentemente dal covid. E hanno avuto l’opportunità di riflettere su quanto non siamo preparati a pensare i limiti delle nostre esistenze.

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