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CPH:DOX 2023

Erik Gandini • Regista di After Work

“La sfida era come catturare il futuro attraverso il presente”

di 

- Il regista italo-svedese parla di rimodellare le convenzioni del documentario, immaginare il futuro attraverso il presente e concepire un mondo senza lavoro

Erik Gandini  • Regista di After Work
(© Jens Lasthein)

Erik Gandini è un regista, sceneggiatore e produttore italo-svedese noto per i suoi pluripremiati documentari, come Surplus - Terrorized into Being Consumers e Videocracy [+leggi anche:
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di Marcus Lindeen. L'ultimo lungometraggio di Gandini, After Work [+leggi anche:
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, recentemente proiettato al CPH:DOX, esplora il rapporto dell'umanità con il lavoro e tenta di immaginare come le persone potrebbero adattarsi a un mondo automatizzato. Cineuropa ha parlato con il regista di rimodellare le convenzioni del documentario, immaginare il futuro attraverso il presente e concepire un mondo senza lavoro.

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Cineuropa: Guardando After Work, la prima idea che viene in mente è il teorema del suo film precedente La teoria svedese dell’amore, ossia che una persona può scegliere liberamente la vita che vuole vivere. After Work è una sorta di sequel dell'ipotesi presentata in quel film?
Erik Gandini: Sicuramente. Sono felice che lei abbia colto la connessione. C'era in me una sorta di frustrazione con La teoria svedese dell’amore, specialmente con il pubblico svedese, che a volte non riconosceva come vero il mondo o la dimensione che mostravo. L'argomentazione era che non riconoscevano il presente. Bene, il mio approccio mentre giravo La teoria svedese dell’amore era più del tipo "e se", nel senso che cercavo di catturare non necessariamente "come stanno le cose adesso", ma piuttosto come "potrebbero essere".

Quando si tratta di documentari, c'è ancora molta incomprensione. La gente pensa che sia giornalismo o che il documentario debba essere molto fattuale. Ho sempre affermato di voler dare un senso al presente e mostrare la realtà come viene percepita, non come è. Ma qui ho voluto fare un ulteriore passo avanti, cercando di dare un senso non solo al presente, ma anche al futuro prossimo. Come potrebbero essere le cose, il che implica abbracciare l'ipotesi. E After Work è esattamente questo: è un'ipotesi. E nel campo del documentario c'è ancora una sorta di resistenza ad accettare che si possa seguire un'ipotesi. After Work è ancora di più perché tratta davvero di una situazione che non si è ancora verificata. Quindi, la sfida era come catturare il futuro attraverso il presente.

Coloro che vogliono immaginare un futuro sono solitamente futuristi. Perché ha voluto usare il presente per immaginare il futuro?
Sono un regista di documentari e mi piace molto lavorare con il presente. Non riesco a vedermi lavorare in nessun altro modo. Ma mi piace catturare cose che sono imprevedibili. Vai in un posto che non conosci molto bene e vedi cosa dicono o fanno le persone. Nel primo atto di After Work, siamo in due paesi, gli Stati Uniti e la Corea del Sud, il che ci immerge nei lati disfunzionali del presente.

Nella seconda parte, ci spostiamo in Kuwait e in Italia, dove esploriamo come potrebbero essere le cose se ci liberassimo davvero del lavoro e improvvisamente avessimo molto più tempo. Dal punto di vista cinematografico, è più interessante per me lavorare con i luoghi disfunzionali. Il Kuwait è interessante perché è davvero una società basata sul reddito di base, ma è un reddito di base con una particolarità: la gente guadagna fingendo di lavorare, recitando.

Perché ha mantenuto la convenzione delle teste parlanti?
Nemmeno a me piacciono le teste parlanti, e in After Work sono ridotte a una frazione del film. Ma mi piace intervistare le persone. E con il DoP Fredrik Wenzel, che è un direttore della fotografia fantastico, abbiamo almeno cercato di farle sembrare belle. Usiamo anche la tecnica di Errol Morris, l'Interrotron. Prima era uno strumento enorme e costoso, ora è solo una scatola che puoi mettere davanti alla telecamera.

Qual è il suo rapporto con le convenzioni del documentario?
So che i documentari di maggior successo sono i ritratti, le storie basate sui personaggi. Molti anni fa ho preso la decisione – anche se so che è un'idea forse destinata a fallire – di realizzare documentari basati sulle idee. I personaggi sono portatori di idee, piccoli puzzle in un quadro più ampio. Ma non voglio avvicinarmi troppo a loro. Non voglio costruire i miei film su questa intimità, un metodo che è diventato molto comune con la proliferazione dei reality e si è trasformato in un modello di business.

In Svezia , c'era un'ossessione per l'intimità nei documentari. Quando ho frequentato la scuola di cinema, ti dicevano: “Devi avvicinarti molto al protagonista; devi essere in grado di annusare il personaggio”. Poi, durante il mio percorso, mi sono allontanato da queste convenzioni non appena sono diventate un modello di business dei canali tv commerciali. Anche questo è legato alla cinematografia. Amo i personaggi e mi piace molto lavorare con loro. Ma mi piace anche pensare che non abbiano bisogno che la loro intimità venga invasa solo per aiutarmi nella mia esplorazione.

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(Tradotto dall'inglese)

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