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CANNES 2023 Semaine de la Critique

Ava Cahen • Delegata generale, Semaine de la Critique

"Tendiamo ad ascoltare quando parla il cuore, quando c'è una unanimità critica e una convergenza di sguardi"

di 

- La delegata generale della Semaine de la Critique del Festival di Cannes commenta la sua selezione 2023

Ava Cahen  • Delegata generale, Semaine de la Critique
(© Aurelie Lamachere/Semaine de la Critique)

Ava Cahen, delegata generale della Semaine de la Critique dall’anno scorso, parla con Cineuropa della selezione 2023 (leggi l’articolo) della sezione parallela la cui 62ma edizione si svolgerà dal 17 al 25 maggio nell’ambito del 76° Festival di Cannes.

Cineuropa: Tra i 1000 lungometraggi che avete visionato, quali tendenze ha rilevato in termini geografici?
Ava Cahen:
Mille è la media di film che riceviamo ogni anno. Il sud-est asiatico è in ottima forma, con una produzione molto interessante proveniente da Malesia, Filippine, Tailandia, ecc. Il Brasile torna a fare cinema dopo anni molto difficili per la cultura con Bolsonaro presidente, e noi abbiamo selezionato Levante di Lillah Halla. Anche un film giordano, Inchallah un fils di Amjad Al Rasheed, ha attirato la nostra attenzione e, per quanto ne so, nessun lungometraggio di questo paese era mai stato selezionato a Cannes. La produzione francese, come al solito, è in gran forma. Per quanto riguarda i cortometraggi, ne abbiamo ricevuti 2100, anche questi prevalentemente dall'Asia: Cina, Egitto, India, ecc. Con tutti questi corti e lungometraggi, abbiamo davvero fatto il giro del mondo e abbiamo optato per una selezione molto internazionale.

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Che cosa ha motivato la scelta dei sette lungometraggi in concorso: tre asiatici, tre europei e uno sudamericano?
Sono stati i film che ci hanno entusiasmato di più durante il processo di visione, che si è svolto da dicembre all'inizio di aprile. Vogliamo condividerli e offrire il panorama più completo possibile del cinema mondiale, per temi, registri e generi. In questa competizione, in particolare, avremo il cinema fantastico (Tiger Stripes di Amanda Nell Eu), l’horror (Sleep di Jason Yu), il dramma dal respiro letterario con Le ravissement di Iris Kaltenbäck che ricorda molto gli esordi di Claire Denis e Leos Carax, la tragedia che flirta con il neorealismo (Lost Country di Vladimir Perisič), una cronaca estiva che guarda più a Ken Loach che ai fratelli Dardenne con Il pleut dans la maison di Paloma Sermon-Daï… C’è una grande diversità di offerte cinematografiche.

A differenza del concorso dell’anno passato, che era composto esclusivamente da opere prime, questa volta c'è in gara un secondo lungometraggio. Come mai?
L'anno scorso avevamo ricevuto un gran numero di opere prime che ci erano piaciute molto. Avevamo quindi deciso con il comitato di selezione di dare spazio ai primi lungometraggi. Quest'anno ci siamo innamorati di Lost Country di Vladimir Perisič e ci è sembrato ovvio che dovesse essere in concorso circondato da tutte queste altre bellissime opere prime. Qualche anno fa, la Semaine aveva selezionato A White, White Day [+leggi anche:
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, secondo lungometraggio di Hlynur Pálmason, che ha poi debuttato al Certain Regard con Godland [+leggi anche:
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. Vogliamo che anche i secondi lungometraggi siano inclusi nel concorso e, soprattutto, tendiamo ad ascoltare quando il nostro cuore ci parla, quando c'è unanimità critica e una convergenza di sguardi. Non ci sono mai regole ferree: partiamo da zero ogni anno.

I quattro lungometraggi in proiezione speciale sono diretti da un duo belga e da tre cineasti francesi. Dove sono finiti gli altri territori, europei in particolare?
L'anno scorso c'è stato un film d'apertura americano e un film di chiusura coreano. Quest'anno abbiamo voluto che la competizione fosse più internazionale: con Malesia, Corea, Francia, Brasile, Serbia, Giordania e Belgio, giriamo tutto il mondo. Ma ci siamo innamorati anche dei secondi lungometraggi di Marie Amachoukeli e di Erwan Le Duc. Non potevamo lasciarci sfuggire questi film: offriranno una parentesi un po' incantata in apertura e in chiusura. È anche un modo per rendere omaggio al cinema francese nella sua diversità. Ama Gloria [+leggi anche:
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 in apertura è un dramma intimo e delicato, La fille de son père in chiusura è una tragicommedia piena di fantasia che flirta con il cinema di Wes Anderson. Per quanto riguarda le altre due proiezioni speciali, Le syndrome des amours passées di Ann Sirot e Raphaël Balboni è una commedia romantica che infrange un po' gli standard, e Vincent doit mourir di Stéphan Castang un film di genere teso e angosciante.

Più in generale, ci guida il cuore. Ad esempio, due anni fa, il cinema spagnolo e il cinema italiano avevano buoni posti alla Semaine de la Critique, ma la loro assenza quest'anno non significa che non ci piacciono i film spagnoli e italiani. Con sette posti in concorso, abbiamo dovuto fare delle scelte e altri territori sono emersi come con questo primo film giordano a Cannes. E che film! E immagino che non debba essere così facile fare film in Giordania.

E il giovane cinema indipendente americano, assente dal programma? Questione di minore offerta, di problemi di produzione o di appeal del Sundance Film Festival?
È vero che Sundance è una bellissima vetrina per il cinema indipendente americano ed è naturale che questa produzione si rivolga a quel festival. Mi sembra che non abbiamo ricevuto meno film americani del solito. E la Semaine de la Critique segue sempre da vicino quella produzione. Quest'anno abbiamo semplicemente avuto meno colpi di fulmine e meno entusiasmo rispetto ai film degli altri territori che abbiamo selezionato. C'è anche da dire che il cinema indipendente americano fa un po' fatica, come tutti sappiamo, a causa delle politiche degli studios e della forte inclinazione verso le piattaforme. Alla Semaine vogliamo che i film abbiano distributori e che i film possano uscire nelle sale e incontrare il loro pubblico, e il cinema americano a volte ne fa a meno, il che complica un po' la situazione. Ma la qualità dei film c'era, semplicemente avevamo altri desideri, altre scelte, altre scommesse.

Vi sono stati offerti film dalle piattaforme?
Sì. Ci vengono sempre offerti. Possono candidarsi, come per la Selezione Ufficiale, nell’ambito delle proiezioni speciali, ma non in concorso. E noi li guardiamo.

La nuova configurazione della Selezione Ufficiale, con la sezione Un Certain Regard che pone ancora più enfasi sui giovani talenti, le ha complicato le cose? Quali sono stati i rapporti tra le diverse selezioni di Cannes?
Ottimi. Dialogo molto con Thierry Frémaux e il nostro rapporto è del tutto complice. Quello che mi fa piacere, e lo dico con sincerità, è vedere che anno dopo anno a Cannes ci sono sempre più opere prime e seconde, e quindi una maggiore diversità. Alla Semaine de la Critique, ci teniamo a essere la selezione privilegiata per opere prime e seconde, ma abbiamo 11 posti. Non sono tanti, quindi se c'è la possibilità di far esistere altrove film che ci sono piaciuti ma che non possiamo prendere, è fantastico, che sia al Certain Regard, più in generale nella Selezione Ufficiale, o alla Quinzaine des Cinéastes. Sarò sempre felice di vedere che un buon film è a Cannes. L'idea è la complementarità. Il posizionamento della Semaine de la Critique è molto chiaro: scoprire, promuovere e confermare i nuovi talenti. Esiste da 62 anni e il nostro DNA è ben consolidato.

Sei degli 11 lungometraggi selezionati sono stati diretti da donne, e poiché uno di questi è co-diretto, abbiamo una parità perfetta: sei registe e sei registi. È una coincidenza?
Non adottiamo una politica di quote, ma riceviamo sempre più opere prime e seconde dirette da donne, da tutte le regioni, come dimostra perfettamente la presenza in concorso dell'opera prima della regista malese Amanda Nell Eu. Certo, è un risultato davvero incoraggiante, ma viene d’istinto: sono i film che si impongono. Questo non significa che io non sia incredibilmente orgogliosa di questa meravigliosa parità, ma non è premeditato, anche se per noi è molto importante rappresentare il più possibile i film di registe donne.

(Tradotto dal francese)

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