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CANNES 2023 Semaine de la Critique

Paloma Sermon-Daï • Regista di Il pleut dans la maison

"Il film si è scritto facendolo"

di 

- CANNES 2023: La giovane cineasta belga racconta il suo delicato ritratto di un fratello e una sorella che vivono l'ultima estate dell'adolescenza in una località balneare vallona

Paloma Sermon-Daï • Regista di Il pleut dans la maison

Paloma Sermon-Daï si è fatta conoscere con Petit Samedi [+leggi anche:
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, selezionato a Berlino, miglior documentario Magritte nel 2022. La regista ha presentato il suo primo lungometraggio, Il pleut dans la maison [+leggi anche:
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, in concorso alla sessantaduesima edizione della Semaine de la Critique.

Cineuropa: Cosa c'è all'origine di questo progetto?
Paloma Sermon-Daï: Prima di tutto, il desiderio di fare un film sull'adolescenza. Avevo esplorato l'infanzia nel mio cortometraggio Makenzy, l'età adulta in Petit Samedi, e mi sembrava che fosse ancora il momento di trattare l'adolescenza. Non ero molto lontano da essa, anche se avevo un po' di distanza. Volevo ancora lavorare in Vallonia, allontanandomi un po' da casa, esplorando questa regione post-industriale, in cui appare anche una frattura tra una popolazione piuttosto povera e il turismo di massa durante l'estate. Volevo lavorare su questo legame fraterno tra un fratello e una sorella e sull'arte di affrontarlo. E poi parlare di ciò che ci si aspetta dalle ragazze e dai ragazzi. Purdey, la sorella, assume naturalmente il ruolo di madre, cerca di proteggere il fratello, di tenere in piedi la casa, anche a costo di sacrificarsi per prendersi cura della famiglia.

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La sua adolescenza, come quella del fratello, le viene in un certo senso rubata.
È una cosa che ho vissuto, ho avuto un'adolescenza piuttosto difficile, anche se piena di bellezza e di poesia. Ho la sensazione di non essere mai stata veramente una bambina, di essere diventata adulta molto rapidamente. All'inizio del film c'è qualcosa di quasi cronachistico, una buona dose di ingenuità, si ha l'impressione di entrare in un racconto di formazione piuttosto classico, che ritrae un'adolescenza in riva al mare. Cose abbastanza leggere, ma che gradualmente diventano più difficili, come la loro vita quotidiana.

La casa del titolo è al centro dei problemi. Sta cadendo a pezzi, i personaggi cercano di rimetterla a posto senza risultati, così come le loro vite.
Era un personaggio a sé stante. È complicato parlare di precarietà al cinema, c'è questa etichetta di "film sociale" che viene subito affibbiata se c'è l'idea di mostrare la miseria. È qualcosa che spesso mi crea problemi, è difficile trovare l'angolazione giusta, l'altezza giusta, credo. Volevo che la precarietà fosse presente sullo sfondo, che trasparisse dall'arredamento, ma che non fosse accentuata.

Come è stato scrivere dopo l'esperienza del documentario?
All'inizio pensavo che avrei intrapreso un percorso di fiction classica. Ma quando abbiamo deciso di lavorare con Makenzy e Purdey, che conoscevo avendo già fatto delle riprese con loro, c'è stato un senso di urgenza. Abbiamo scelto di chiedere un aiuto alla produzione leggero, il che significava un budget minore, e di essere pronti in fretta. I miei due attori principali non avevano esperienza, quindi ho iniziato a lavorare con loro molto presto, ho fatto dei workshop, per stabilire un quadro di riferimento. Li vedevo ogni due o tre settimane e li filmavo spesso. La macchina da presa è lo strumento con cui mi trovo più a mio agio, non ho una formazione di scrittura, non ho frequentato una scuola di regia, ho ancora qualche problema di legittimità, quindi lavoro d'istinto. Molte cose sono state scritte con la macchina da presa. Non ho dato il testo agli attori fino a due settimane prima delle riprese, perché volevo che mantenessero questa vivacità, per far sì che ci fosse la possibilità di improvvisare. Per noi questo contesto produttivo non è stato un vincolo, ma piuttosto un incitamento a un certo radicalismo.

Ti permette anche di desacralizzare il passaggio al primo lungometraggio che può essere, se non paralizzante, almeno intimidatorio? Andare a trovare il proprio cinema in modo più libero?
Penso che se avessi avuto un team enorme, con una sceneggiatura molto rigida, non sarei stata in grado di cambiare idea quando ne sentivo il bisogno. Penso anche che questo ti permetta di fare scelte radicali e di mantenerle, senza temere le conseguenze, senza avere paura di rompere la struttura, la narrazione. Il film è stato scritto mentre veniva realizzato.

Qual è stata la sfida più grande?
Onestamente, fare fiction. Credo che tutti si aspettassero da me una maggiore ibridazione, un'eredità più documentaristica. Ho dovuto farlo funzionare bene, in modo molto semplice, lavorando d'istinto.

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(Tradotto dal francese da Alessandro Luchetti)

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