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KARLOVY VARY 2023 Concorso

Marco Righi • Regista di Il vento soffia dove vuole

“Mi interessava la dimensione della fede nell’esperienza terrena dell’uomo”

di 

- Il regista italiano ci racconta la lavorazione del suo secondo lungometraggio, un’odissea religiosa e spirituale

Marco Righi  • Regista di Il vento soffia dove vuole

Abbiamo colto l’occasione di parlare con il regista emiliano Marco Righi, unico italiano in concorso al Festival di Karlovy Vary con la sua opera seconda Il vento soffia dove vuole [+leggi anche:
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Cineuropa: Partiamo dall’inizio. Come e quando ha deciso di raccontare questa storia e perché ha reputato importante raccontarla oggi?
Marco Righi: In realtà, l’idea di questa storia non è stata una folgorazione sulla via di Damasco. Rispetto al mio film precedente I giorni della vendemmia, l’idea narrativa è [stata parte di] un processo un po’ lento che mette insieme vari elementi. C’è stato un caso di cronaca locale – sono di Reggio Emilia – che ho seguito un po’ di anni fa e che mi ha colpito, nel quale non entro troppo nel merito per evitare anticipazioni. Poi c’era questa ricerca che stavo facendo sul cristianesimo antico. Mi interessava la dimensione della fede nell’esperienza terrena dell’uomo. In qualche modo, si tratta di un qualcosa che forse ho preso dal mio passato, perché intorno ai 18-20 anni ricordo che avevo una mia frequentazione con la spiritualità e questo è sicuramente entrato nella mia storia.

Poi, c’è stato questo incontro con un saggio di Paul Schrader, Il trascendente nel cinema. Credo fosse la sua tesi di laurea del ‘72 a UCLA [ndr, Righi ricorda bene]. Questo saggio analizza principalmente tre autori, tra i quali Robert Bresson. È stato rivelatorio, in particolare per quanto riguarda la struttura narrativa che ho cercato di adattare al film. Il film è idealmente diviso in quotidianità, scissione e stasi - quasi tre “atti”, tre momenti descritti da Schrader abbastanza scrupolosamente. [..] Il fatto che [il racconto] sia comunque “contemporaneo” è stata una scelta dettata da ragioni pratiche. Non c’era un reale motivo per metterlo in scena in un tempo passato perché qui c’è un piccolo borgo sull’Appennino e ho voluto dare una dimensione atemporale a questa storia – contemporanea, ma in qualche modo avulsa dalla modernità.

Potenzialmente, potremmo essere ovunque.
Sì, è questa la dimensione che ho voluto dare. [..] Credo [l’ambientazione] possa essere in qualche modo molto trasversale. Non volevo dare troppe indicazioni rispetto al dove e al come.

Per non distrarre dai temi e dalla storia.
Esatto. Credo questa storia parli di provincia, di un incontro e di una vicenda familiare ed intima. Sono forse questi i tre temi principali del film, oltre ovviamente al tema della fede.

Cosa l’ha portata a scegliere Jacopo Olmo Antinori e Fiorenzo Mattu per i rispettivi ruoli?
Per il protagonista avevo in mente una figura che fisicamente ed esteticamente fosse come quella di Jacopo, cioè molto “imperfetto”, che rappresentasse al meglio quella dimensione che ho descritto prima, ovvero il luogo disperso della provincia. Non volevo focalizzarmi troppo su dei volti “belli”. Anche Fiorenzo ha un volto che ti colpisce, interessante. Questa scoperta la fece già Giovanni Columbu [ndr, regista di Su Re [+leggi anche:
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, precedente film di Mattu] e gliene riconosco il merito. [..] Nel mio film vorrei si guardasse di più all’introspezione dei personaggi.

Spesso la camera da presa non esita a lasciare spazio a campi lunghi e figure riprese dalla distanza, restituendo una certa organicità tipica del documentario d’osservazione. Questa scelta era già prevista in fase di scrittura oppure è emersa in un secondo momento?
No, era già presente in fase di scrittura perché non amo le riprese troppo ravvicinate. Non amo i piani troppo stretti perché se posso, racconto una storia avendo più informazioni in ogni singola inquadratura, usando pochi shot, pochi punti di vista o una ripresa unica. [..] In tante scene e anche nei piani a due ho cercato di essere largo, fermo. [..] Non ho pensato esattamente all’accostamento col documentario, ho sempre pensato ad una storia di finzione ma mi piace molto avere la camera fissa, quasi impercettibile, dove lo spettatore non deve dare troppo peso alla regia ed al fatto che sia presente.

I dialoghi e le atmosfere sembrano continuamente sospesi tra quotidianità ed una dimensione ovviamente più filosofica, spirituale. Come ha raggiunto questo equilibrio?
L’ho fatto cercando sempre di lavorare di ricerca, quindi ho visto davvero molte film legati, per così dire, al cinema spiritualista, [al cinema] del trascendente, e cercando di leggere sia teologi, sia teorici del cinema… La citazione iniziale, per esempio, è di Amédée Ayfre, un abate francese che pero è stato anche un teorico del cinema. Conosceva André Bazin ed ha anche scritto un saggio intitolato Problemi estetici del cinema religioso. Ho approfondito molto questa componente, cercando di scrivere dei dialoghi che avessero una dimensione talvolta provocatoria, ma che non scadessero [nella banalità, ndr]. Ho cercato di lavorare in sottrazione.[..] Anche il montaggio ha apportato qualche correzione, contribuendo a cesellare il tutto.

In un’intervista riportata sull’edizione italiana di The Hollywood Reporter, il produttore Emanuele Caruso ha rivelato che il film è praticamente un no-budget, essendo costato poco meno di 200.000 euro. Com’è stato lavorare ad un prodotto tanto complesso e con così poche risorse?
Siamo a Karlovy Vary perché il direttore Karel Och si è letteralmente invaghito del film. Ci ha scritto una mail dicendo che apprezzava moltissimo la nostra storia, la messa in scena ed il discorso della “povertà”, senza che questo fosse considerato un disvalore. Ci ha poi invitato a fermare il film per il concorso. [..] Abbiamo girato in 18 giorni, mentre il primo l’ho fatto in 14. A volte scherzo dicendo di sperare di fare il terzo almeno in quattro settimane! [ride] [18 giorni] sono pochi, è stata dura ma il Covid ed il tempo ci hanno graziato. Ci siamo dati molto da fare: avevamo persone che, con un budget del genere, coprivano da sole interi reparti.

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