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LOCARNO 2023 Concorso

Simone Bozzelli • Regista di Patagonia

“Nel mio film lo stupefacente più forte è l’amore”

di 

- Il regista italiano mette in scena una relazione di dipendenza affettiva in bilico tra violenza e tenerezza, e ci parla di un’Italia troppo spesso dimenticata

Simone Bozzelli  • Regista di Patagonia
(© Federico Papagna)

Presentato nel Concorso internazionale del Locarno Film Festival, Patagonia [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Simone Bozzelli
scheda film
]
di Simone Bozzelli mette in scena dei personaggi che rivendicano con forza la loro diversità scegliendo di vivere in uno stato di semi autonomia basato su regole proprie. Nel bel mezzo di questa umanità dimenticata ritroviamo Yuri e Agostino, coppia di outsiders che si nutre di amore e violenza. Dopo la première del film il regista ci ha parlato della sua scoperta del mondo dei rave party e del suo rapporto con il cinema indipendente.

Cineuropa: Dove nasce il suo interesse per quest’Italia che il governo Meloni preferirebbe dimenticare?
Simone Bozzelli: L’idea del film è nata prima ancora del “decreto rave”, in piena pandemia, in un momento nel quale c’era una grande voglia di aggregazione, di tornare a momenti di festa. Tutto nasce da una relazione che ho avuto, molto simile a quella vissuta da Yuri e Agostino, che mi ha fatto scoprire il mondo dei rave. In quanto spettatore “distaccato” non ci andavo con uno spirito di militanza legato alla musica e credo che questo mi abbia permesso di catturarne gli aspetti più particolari e sconosciuti: la presenza di bambini e animali, le targhe delle auto camuffate ecc.

Nel suo film i corpi dei protagonisti sono scrutati da vicino, come se volesse svelarne i segreti sottopelle. Cosa raccontano questi corpi “ammaccati” dei protagonisti?
Sono ossessionato dai corpi. Tutto nasce nel periodo in cui facevo cortometraggi e il budget per le scenografie era limitato. Potevo contare unicamente sulla recitazione degli attori, sulla forza delle loro interpretazioni. Riguardando questi film mi sono accorto che le loro imperfezioni, le loro cicatrici, erano dei canyon all’interno dei quali si nascondevano tante cose. Yuri e Agostino, i protagonisti del mio film, vivono una relazione tormentata di dipendenza affettiva in cui l’altro diventa il baricentro di tutto, in cui si comincia a perdere, cinematograficamente parlando, il bilanciamento del bianco, a vedere le cose con i paraocchi, con un teleobbiettivo che ti fa perdere la scala di tutto. Yuri non si rende nemmeno più conto di quali siano le sue priorità e arriva addirittura a mettere la sua salute in secondo piano. È la stessa cosa che succede con la tossicodipendenza, la sostanza diventa il centro di tutto e chi la vive dimentica persino di mangiare, di lavarsi. Nel mio film lo stupefacente più forte è però l’amore.

Nel suo film i personaggi sembrano rivendicare il diritto di vivere una diversità per la quale non intendono scusarsi. La normalità, l’integrazione sociale, sono obbiettivo che rigettano con fermezza. Come si posiziona a riguardo?
Grazie mille per questa domanda perché avevo paura che il mio film fosse mal interpretato a causa della messa in scena di una relazione omosessuale non proprio bella, una relazione nella quale il buio sembra assorbire la luce. Allo stesso tempo questo buio era anche il mio punto di forza, un modo per dire che quello che vivono non è legato all’identità sessuale o di genere ma piuttosto all’identità relazionale. Il buio riguarda tutti. Quello che mi interessa esplorare è il concetto di identità relazionale, chi siamo, cosa siamo. Per quanto riguarda la marginalità, uno dei miei film preferiti, o meglio la mia trilogia preferita è quella di Paul Morrissey. Come nel mio film, tutti i personaggi di Morrissey sono degli emarginati, assuefatti da droghe, da una vita apparentemente letargica dove non succede nulla. Morrissey osserva questi anti eroi da vicino, con grandissimo amore ma anche senza giudicarli e permettendogli di sbagliare. L’errore è valorizzato anche da un punto di vista filmico. Morrissey non taglia niente perché l’errore, il caduco é quello che ci rende umani.

Cosa significa essere un artista italiano oggi? Si può parlare di una giovane generazione di artisti italiani “indipendenti” che rivendica la propria voce dissidente?
Mi farebbe molto piacere essere incluso in questo movimento artistico, tra persone che stimo e alle quali sono vicino. Io faccio però parte del mondo del cinema e definire cosa sia un film indipendente è difficile. Sono convinto che ad essere indipendente debba essere il regista. Nonostante un film sia prodotto, come nel mio caso, da una grande casa di produzione il o la regista deve mantenere la propria indipendenza artistica. Per quanto riguarda l’Italia, nonostante sia un contesto in cui emergere risulta forse più difficile, confesso di non aver voglia di partire. Quando mi chiedono perché non ho scelto per esempio Londra o Berlino come città d’adozione, rispondo che loro certe problematiche le affrontano già, le trascrivono attraverso l’arte e possiedono della particolarità culturali che gli permettono di farlo benissimo. Penso per esempio a Matt Lambert. Proprio perché in Italia queste voci mancano credo sia importante rimanere e lottare per farle sentire.

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