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Italia / Francia / Libano

Giovanni C. Lorusso • Regista di Song of all Ends

“Credo alle esperienze lunghe, calme e meditate, in cui le cose non ti vengono proiettate nel cervello con violenza, ma ti prendi il tuo tempo per capirle"

di 

- Il regista italiano ci parla del suo documentario girato nel campo profughi di Shatila all’indomani dell’esplosione al porto di Beirut nel 2020

Giovanni C. Lorusso • Regista di Song of all Ends

Tra il 2021 e il 2023, il direttore della fotografia e regista Giovanni C. Lorusso, sardo di origine e residente a Parigi, ha girato quattro documentari in varie parti del mondo: a Johannesburg (Americano!), in Gambia (Moriah) e a Beirut (A Man Fell e Song of All Ends [+leggi anche:
intervista: Giovanni C. Lorusso
scheda film
]
). Song of All Ends, ambientato nel campo profughi di Shatila, è il primo di questi ad essere mostrato al pubblico. Dopo la sua prima mondiale all’International Film Festival Rotterdam 2024, il film ha partecipato di recente al 42mo Bellaria Film Festival, nel concorso Gabbiano, riservato alle opere più innovative e di ricerca. A Bellaria abbiamo incontrato il regista per parlare del suo doc, incentrato su una famiglia palestinese in lutto all’indomani dell’esplosione al porto di Beirut nel 2020, e del suo metodo di lavoro.

Cineuropa: Qual è il percorso che l’ha portata nel campo profughi di Shatila?
Giovanni C. Lorusso: Sono 25 anni che viaggio. Gli angoli del mondo meno conosciuti sono quelli che mi affascinano di più, e gli eventi meno essenziali dal punto di vista storico sono quelli che più mi attirano. Durante le due ondate di Covid, a maggio 2020, ho capito che troppi mesi in casa non facevano per me, così ho cercato nei vari siti in quali paesi si potesse viaggiare. Tra questi c’era il Libano. Prenotai per il 6 agosto 2020, è una data importante perché due giorni prima c’era stata l’esplosione al porto di Beirut. Arrivato lì, con la mia macchina fotografica e 60 rullini, inizio a fare foto, a conoscere gente. Cammino e finisco al mercato di Shatila. Mi infilo in uno dei vicoli in modo un po’ naif, come faccio solitamente, e mi ritrovo in una situazione non facile. C’era tensione perché si pensava che l’attacco al porto fosse opera degli israeliani, quindi un uomo bianco in giro con una macchina fotografica non era ben visto. In quel momento Galeb, che è il padre di famiglia, stava buttando la spazzatura e ha visto che ero in difficoltà, mi ha subito invitato a entrare in casa a prendere un tè. Così è iniziata la conoscenza di questa famiglia. Tutti gli incontri che faccio per i miei film sono dei miracoli: cammino tanto, osservo la gente, poi c’è sempre una persona o un gruppo di persone di cui mi innamoro, a volte ricambiato. Basta uno sguardo. Di solito quello diventa il soggetto del mio film. È una forma di casting un po’ alternativo, spirituale.

Qual è la quota di fiction nei suoi lavori?
Mi piace, soprattutto nel cinema degli ultimi anni, questo senso di confusione su cosa è reale e cosa non lo è, ho iniziato a giocarci. La realtà è l’ispirazione massima, è la base all’80%, e da lì aggiungo. La storia di Houda [la bambina che nel film rimane uccisa durante l’esplosione al porto, ndr] nasce dal fatto che i due figli gemelli che vediamo nel film nella realtà erano tre, ma uno di loro è morto alla nascita. La cosa che mi ha affascinato è che la famiglia era molto tranquilla nel parlarne, ma si sentiva un senso di vuoto nella casa. Qualche giorno dopo faccio una ripresa dove ci sono due bambini che giocano, e attraverso un buco vedo una bambina che guarda e poi scappa. Hassan, il fratello più piccolo, mi dice che quella è Houda, io gli dico di andarla a chiamare. Quando l’ho incontrata, ancora una volta è scattato quel tipo di amore. Nella realtà, lei ha perso i genitori, e la condizione degli orfani lì è davvero drammatica. È arrivata da me come uno spirito, allora mi sono detto: perché non introdurla nel film come uno spirito? Allo stesso tempo, la cosa più forte per me arrivando a Beirut dopo l’esplosione fu ascoltare alla radio l’intervista a un padre che parlava della morte di sua figlia Alexa, la vittima più giovane dell’esplosione. Alla fine, è stato come unire i puntini.

Il suo film non ha lo scopo di essere informativo. Piuttosto, lascia che le immagini parlino da sole.
Credo alle esperienze lunghe, calme e meditate, in cui le cose non ti vengono proiettate nel cervello con violenza, ma ti prendi il tuo tempo per capirle e decidere cosa ti interessa e cosa no. Il mio metodo è stare seduto, guardarmi attorno e cercare di vivere il momento. Ma non voglio annoiare lo spettatore, quindi cerco di fare film che non vadano oltre i 70 minuti. So che può essere pesante guardare un film dove sembra che nulla accada. I miei film non hanno quasi mai movimenti di camera, sono fatti con il 28 mm, se c’è una porta riprendo l’immagine da fuori per avere una visione il più ampia possibile, i close-up solo se necessari. Mi sento onesto con me stesso girando in questo modo, senza preconcetti. Quando ci confrontiamo con un mondo estraneo, la prima sensazione è che ci sembra assurdo. È una condizione normale che però cambia quando facciamo quel passo in più per accettarlo. L’immediatezza è fondamentale per prendere le cose così come sono, anche se sono difficili da digerire.

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