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NAMUR 2024

Bénédicte Lienard e Mary Jimenez • Registe di Fuga

“La nostra responsabilità è parlare del passato nel presente"

di 

- Le due registe parlano del loro nuovo film, in cui proseguono il loro viaggio alla ricerca dei fantasmi del passato del Perù

Bénédicte Lienard e Mary Jimenez  • Registe di Fuga
(© Valentin Louvrier/FIFF)

Cinque anni dopo aver vinto il Premio speciale della Giuria e il Bayard per la miglior fotografia con By the Name of Tania [+leggi anche:
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, in cui risalivano la sponda peruviana del Rio delle Amazzoni, Bénédicte Lienard e Mary Jimenez tornano in concorso al Festival internazionale del film francofono di Namur per presentare il loro nuovo lungometraggio, Fuga [+leggi anche:
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. Nel film, proseguono il loro viaggio alla ricerca dei fantasmi del passato del Perù, un'indagine memoriale, sensoriale e spirituale condotta da Saor sulle tracce di Valentina, vittima della violenza terroristica e delle persecuzioni omofobiche che hanno devastato il Paese per anni. Abbiamo incontrato le due registe.

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Cineuropa: Quali sono le origini del progetto? Come si inserisce nella vostra filmografia?
Bénédicte Lienard:
Questo è il nostro terzo film nell'Amazzonia peruviana, l’ultima parte di una trilogia. Per noi, un film spesso porta a un altro, e Fuga ha le sue radici nelle riprese di By the Name of Tania. A Iquitos abbiamo scoperto che la comunità LGBTQIA+ era molto ben rappresentata e ci siamo chieste perché. Ci è stato detto che durante gli anni della guerra civile, le parti in conflitto avevano uno slogan comune: ripulire il Paese dai parassiti omosessuali. Il Paese ha istituito una Commissione per la verità e la riconciliazione, ma abbiamo scoperto che le testimonianze degli omosessuali erano molto poche, a causa della vergogna e dell'omofobia. A queste comunità non è stato permesso di parlare. Ci siamo incamminate lungo il fiume, come facciamo da diversi anni. Abbiamo sempre lavorato così, siamo raccoglitrici di storie. Con uno dei protagonisti del film, Miguel, si è aperta una porta e da lui abbiamo conosciuto tutti i suoi amici, che non avevano mai parlato. Abbiamo formato una comunità con loro.

In By the Name of Tania c'era una voce, mentre qui, con Saor, c'è qualcuno che ascolta.
Mary Jimenez:
Siamo sempre alla ricerca di qualcuno che trasmetta la nostra storia, qualcuno che condivida il nostro punto di vista. Bénédicte ha avuto l'idea che fosse Saor ad ascoltare le storie. Poiché avevamo attori non professionisti come testimoni, ci ha aiutato a inquadrare le loro storie. Saor, che nella vita reale è un artista queer impegnato, porta e condivide le proprie emozioni. Il suo personaggio ci permette di entrare in empatia con lui e ci allontana dal documentario tradizionale, che fornisce storie “secche”. È un prisma, che a volte crea una certa distanza, a volte una vicinanza. Saor è profondamente radicato nel presente del territorio, ma allo stesso tempo invoca il passato e i fantasmi. C'è un lato mistico e soprannaturale.

B.L.: La nostra responsabilità è quella di parlare del passato nel presente, di ancorare i nostri film al cinema contemporaneo. Per noi non c'è mai bisogno di una ricostruzione. Siamo in Amazzonia, quindi chiunque ascolti le vite degli altri è uno sciamano. Il territorio ci apre a questo tipo di immaginario. È anche il nostro amore per il suono, per la creazione del fuori campo e per il coraggio di viaggiare in zone immaginarie, non necessariamente mistiche, ma misteriose. Questi luoghi sono molto abitati, quindi come si fa a immergersi in questa memoria mantenendo un rapporto politico e poetico con il mondo? Mi piace l'idea che il cinema sia al limite. Ai margini della foresta, ai margini del fiume, ai margini dei massacri, sempre in questa zona del viaggio che non è una frontalità, ma una possibilità. Facendo in modo che lo spettatore trovi il suo posto nel viaggio. Fuga parla di violenza e resilienza. Volevamo condividere nel film il turbamento e il tremore che abbiamo provato ascoltando alcune testimonianze. Volevamo creare un modo in cui anche lo spettatore potesse abbracciare questa storia.

C'è una grande dicotomia tra la bellezza dei paesaggi e la violenza delle persone.
B.L.:
Credo che i nostri film siano in realtà piuttosto delicati. La violenza è intrinseca alla storia che raccontiamo, ma abbiamo un modo di fare cinema nostro che è fatto di cose più ossessionanti, più sospese. Creare immagini che permettano allo spettatore di proiettarsi, di lasciare che la sua immaginazione si innesti in una proposta cinematografica.

M.J.: Quello che mostriamo sono le conseguenze della violenza, non la violenza stessa. La violenza si mostra attraverso la sofferenza che provoca.

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(Tradotto dal francese)

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