BOSNIA-ERZEGOVINA Macedonia del Nord
Kumjana Novakova • Regista di Silence of Reason
“Dobbiamo avvicinarci il più possibile a chi è sopravvissuto, a chi preserva la vita”
- La regista ci parla del suo video-saggio realizzato con le testimonianze delle donne che hanno subito violenze nel cosiddetto “campo di stupro” di Foča, durante la guerra nei Balcani
Dopo aver vinto il premio per i diritti umani a Sarajevo, per la miglior regia all’IDFA e per il miglior film internazionale a Cinéma du Réel, fra gli altri, Silence of Reason [+leggi anche:
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intervista: Kumjana Novakova
scheda film] è sbarcato al 7mo Euro Balkan Film Festival (Roma, 6-12 novembre), dove è stato presentato fuori concorso. Abbiamo colto l’occasione per parlare con la regista del film, Kumjana Novakova.
Cineuropa: Cosa l'ha spinta a realizzare questo film e a riportare alla luce queste terribili storie proprio ora? È stato difficile accedere agli archivi?
Kumjana Novakova: Il mio lavoro nasce dalla mia posizione: una donna (come soggetto politico) nata in Jugoslavia, cresciuta durante le guerre degli anni '90 e che ha vissuto le molteplici transizioni (tuttora in corso), vivendo e lavorando nelle periferie dell'Europa coloniale neoliberale. Comprensibilmente, non sono io che decido per un argomento specifico: posso solo impegnarmi nei processi che mi plasmano, che mi “fanno”, per dare un senso al mondo. La violenza di questi tempi è la nostra unica realtà. L'imperialismo non conosce altro linguaggio. Quindi, è estremamente importante, purtroppo, nell'attuale momento contemporaneo, parlare dalla posizione di sopravvivenza alla violenza – soprattutto quando assistiamo ancora una volta a crimini sessuali e torture che vengono commessi e non impediti e nemmeno denunciati, come nel caso delle donne palestinesi, delle donne ucraine e delle donne in generale.
L'archivio del Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia è un archivio pubblico e aperto a tutti, che può essere utilizzato in qualsiasi modo. L'unico problema è che bisogna imparare il linguaggio del tribunale per poter trovare semplicemente le cose al suo interno. Con questo film, come con il resto del mio lavoro, cerco di sviluppare un linguaggio cinematografico che sia parte integrante dell'ambiente che deve essere ricreato dal film. In Silence of Reason questo ha significato un linguaggio cinematografico femminista che proviene dall'archivio stesso, ma che mette anche in discussione le gerarchie della forma cinematografica. Abbiamo cercato di sviluppare un linguaggio basato sulla tenerezza e sulla cura, un linguaggio che si confronta con le gerarchie dell'archivio e con i linguaggi del cinema d'archivio.
Il lavoro sul suono, i continui rumori di sottofondo; il crimine non viene mai rappresentato, tanto meno le vittime. Fa pensare a La zona d'interesse [+leggi anche:
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scheda film] di Jonathan Glazer: è questo un nuovo modo di raccontare l'orrore, visto che ormai abbiamo visto - e vediamo - già tutto?
Per me e per tutti i collaboratori con cui lavoro solitamente, come la montatrice Jelena Maksimovic e il sound designer Vladimir Zivkovic, cerchiamo di trovare la forma all'interno del materiale. Alcune delle decisioni che prendiamo sono posizioni politiche o teoriche, come ad esempio quella di non utilizzare mai materiale relativo ai colpevoli, o un linguaggio basato sulla violenza (o sul crimine), piuttosto che sulla sopravvivenza. Non creeremo mai una soggettività nel cinema intorno alla violenza. Si tratterà sempre di sopravvivenza e resistenza. Dobbiamo avvicinarci il più possibile a chi è sopravvissuto, a chi preserva la vita.
All'inizio sembra che non ci sia correlazione tra immagini, suoni e testi. Le parole sono precise, mentre le immagini sono spesso distorte. Quali scelte artistiche l'hanno guidata?
Le decisioni in termini artistici derivano da un lungo processo di semplice osservazione dell'archivio, di riordino e di semplice constatazione. Riarchivio ogni elemento trovato non come prova di una potenziale narrazione, ma come potenziale punto d'ingresso al mondo che sto cercando di costruire sullo schermo, anche quando non so come sarà questo mondo. Questo processo è però guidato da protocolli molto precisi: quali elementi saranno presi in considerazione, quali sono i limiti dell'archivio, qual è il metodo di ri-archiviazione, ecc. Da questi processi iniziano a emergere diverse correlazioni e noi, come team, sviluppiamo lentamente la sensibilità su come navigare all'interno di questo mondo costruito dall'archivio. Quando si raggiunge quel momento, le scelte artistiche sono ovvie, bisogna solo sintonizzare i propri sensi.
Come regista (e come donna jugoslava) come affronta emotivamente questo tema? E come pensa che una donna, in quanto vittima, possa guarire da un simile trauma?
Le donne sono sopravvissute! Il concetto di vittima è (purtroppo) un concetto patriarcale che rende possibile la sottomissione. Anche l'idea di affrontare le emozioni è per me un concetto piuttosto impegnativo. Il mio modo di prendermi cura di me stessa e di assicurarmi di non generare uno spazio di creazione violento per tutti gli altri collaboratori non deriva da alcune pratiche neoliberali di cura individuale, ma dallo sviluppo di linguaggi artistici di cura, tenerezza e sostegno. Il modo in cui trattiamo le nostre immagini, le nostre narrazioni, il discorso che produciamo con il nostro lavoro. Solo così si può ri-traumatizzare se stessi e traumatizzare gli altri. Silence of Reason è uno spazio di solidarietà generazionale e la generosa collaborazione di tutto il team ha dato a ciascuno di noi tanta forza e ci ha fatto credere che possiamo trasformare i nostri traumi in conoscenza.