Paulo Filipe Monteiro • Regista di Clear Nights
“Volevo fare un film in cui non si dialogasse solo con le parole, ma anche con il corpo”
- Il regista portoghese ci parla del suo film che tratta di depressione post-partum e coming out

Un fratello e una sorella lontani si ritrovano e affrontano insieme i propri demoni (lei la depressione post-partum, lui l’accettazione della propria bisessualità) in Clear Nights [+leggi anche:
intervista: Paulo Filipe Monteiro
scheda film] del regista portoghese Paulo Filipe Monteiro, presentato in prima mondiale al 25mo Festival del cinema europeo di Lecce, in concorso. A Lecce abbiamo parlato con il regista.
Cineuropa: Cosa l’ha spinta, da uomo, ad affrontare il tema della depressione post-partum?
Paulo Filipe Monteiro: Da tanti anni volevo scrivere un film su questo paradosso: una donna ha un bambino, dovrebbe essere il giorno più felice della sua vita, invece quando questo bambino nasce va in depressione. Ho sempre pensato che fosse un soggetto buono per un film. Riguarda la donna, ma anche il suo compagno. Ho cercato molto, ho letto libri, ma la cosa più importante è stata un’infermiera portoghese che ha aperto un blog raccontando la sua storia, e altre donne che hanno passato la stessa situazione si sono riconosciute, non si sono più sentite sole. Il blog ha raccolto tante testimonianze di donne portoghesi contemporanee che parlavano di cose più concrete rispetto agli articoli scientifici o alle statistiche: l’odore che si sentono addosso, la sofferenza con il pianto del bambino, ecc. Così ho cominciato ad entrare in questo mondo. Il baby blues colpisce l’80% delle donne, e alcune vanno in depressione profonda, arrivando persino a pensare di uccidere il bambino: non si sentono in grado di essere madri.
Come le è venuta l’idea di combinare questo tema già grande di per sé con un altro grande tema: quello dell’accettazione del proprio orientamento sessuale?
Era un momento in cui non riuscivo a scrivere il film. Ero al Festival di Berlino e ho cominciato a pensare a un altro personaggio. All’inizio era un personaggio piccolo, poi ho iniziato a svilupparlo e ha assunto una vita sua, indipendente dalla protagonista. Più tardi li ho fatti diventare un fratello e una sorella, distanti fra loro, ma che in un momento di crisi comune cominciano ad avvicinarsi. È subentrato così anche il tema della famiglia: entrambi hanno un problema con la madre. Da lì tutto ha cominciato ad andare al suo posto. Sono due situazioni distinte, ma entrambe di confusione.
Il film alterna momenti di depressione e sensualità. Come ha lavorato su questa combinazione?
Il film tratta di depressione ma non è un film depressivo: guarda in faccia la depressione e poi mostra che se ne può uscire. Quindi i personaggi tornano a vivere, a fare sesso, ecc. Il logline che ho scelto per il film è: “La luce in fondo al tunnel non è un’illusione, il tunnel lo è”. La bambina sta bene, Nuno chiede a sua moglie Lidia perché è angosciata, la luce è lì ma per lei è tutto un tunnel. Quando finalmente si dissipano queste nubi lei va verso la luce. Con Lauro è lo stesso: pensa che non avrà mai il coraggio di ammettere il proprio orientamento sessuale, poi invece lo dice al figlio, lo dice alla madre e tutto va bene. Mi piacciono i personaggi che vanno verso la luce.
I personaggi si esprimono molto con il corpo, con la danza. Qual era l’idea di base?
All’inizio del progetto, la danza era ancora più presente. Volevo fare un film in cui non si dialogasse solo con le parole, ma anche con il corpo. Io sono un appassionato di danza, ho avuto la benedizione di lavorare con Pina Bausch. Per tre anni ho studiato tutti i film di danza e ho realizzato un corto che già andava in questa direzione. In questo progetto ho scelto attori che si muovessero molto bene. L’attore che interpreta Lauro è un grande danzatore, anche l’attrice che incarna la nonna è stata una ballerina di Maurice Béjart. C’era un coreografo ogni giorno sul set, ma non c’è stato il tempo di trovare un linguaggio del corpo vero e proprio. Ci sono scene di danza perché uno dei personaggi è un ballerino, poi ci sono piccole cose sparse in altre scene, come quando il fratello sta discutendo con la sorella e la solleva, continuando a parlare. Abbiamo fatto il possibile e vorrei continuare su questa strada, quella di integrare il movimento nella narrazione. La prossima produzione si concentrerà su questo.
Nel film mostra una Lisbona moderna, insolita.
Mi dà fastidio che compaia sempre la stessa Lisbona nei film, le stesse strade. Invece è cambiata tanto, abbiamo architetti fantastici, edifici incredibili ancora mai visti al cinema. È un’altra Lisbona che qui si mostra. Molte scene sono state girate dove nel ‘98 si è svolta l’Esposizione Universale, il Parco delle Nazioni. Poi ho scelto altri edifici qua e là, perché mi piace l’architettura contemporanea. Inoltre, amo Michelangelo Antonioni, anche a lui piaceva girare in luoghi diversi e speciali, più moderni. Non a caso, l’attrice che ho dato come modello per l’interpretazione di Lidia è Monica Vitti.
Una parola, infine, sull’uso del sonoro. Penso al pianto costante del bambino…
Il suono costante del bambino che piange è una delle cause di depressione, quel rumore molto forte. Lo testimoniano tante donne. Per me il cinema è immagine e suono. Si dice solitamente: “Hai visto quel film?”, ma andrebbe anche detto: “Lo hai sentito?”.
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