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IDFA 2024

Kamal Aljafari • Regista di A Fidai Film

“Questo film non parla solo della Palestina, ma di qualsiasi luogo occupato e di qualsiasi popolo sottoposto a oppressione”

di 

- Il regista palestinese racconta il suo film costruito con immagini d'archivio saccheggiate dall'esercito israeliano che ha rielaborato per esprimere l'oppressione che il suo popolo sta vivendo

Kamal Aljafari • Regista di A Fidai Film

Dopo aver vinto il premio come miglior film al concorso Burning Lights di Visions du Réel, A Fidai Film [+leggi anche:
recensione
intervista: Kamal Aljafari
scheda film
]
di Kamal Aljafari ha partecipato alla selezione Signed dell'IDFA. Abbiamo incontrato il regista palestinese per parlare del suo film, composto da immagini provenienti dall'archivio del Palestine Research Centre, sequestrato da Israele nel 1982.

Cineuropa: Una frase che mi ha colpito nel suo film è l'intertitolo “La fotocamera dei diseredati”. Se l'archivio saccheggiato nel 1982 a Beirut è nelle mani dello Stato israeliano, come ha fatto ad accedervi?
Kamal Aljafari
: Ci sono due tipi di immagini: uno proviene dall'archivio saccheggiato nel 1982, l'altro da diversi archivi israeliani che sono accessibili a tutti. Il materiale d'archivio che appartiene al Palestine Research Centre è passato da una mano all'altra, [a partire] da persone che vi avevano accesso, e ora è nelle mani dell'esercito israeliano. Alcune di queste persone hanno fatto carriera accademica scrivendone, e in un certo senso, per me, sono i secondi saccheggiatori di questo archivio perché non lo hanno voluto condividere con i palestinesi. Ho dovuto insistere con alcuni di loro che alla fine hanno accettato, concedendomi un tempo limitato per esaminare il materiale e condividendo le immagini in una qualità molto bassa. L'ironia è che le persone che hanno detenuto queste immagini sostengono di essere dalla parte dei palestinesi perché operano nel campo degli studi postcoloniali. Il materiale che ho usato è molto poco rispetto a quello a cui hanno accesso. Con il concetto di “fotocamera dei diseredati”, mi riferivo all'impossibilità di accedere alle proprie immagini e a quelle dei Paesi occupati. La “fotocamera” è composta da questi due tipi di immagini d'archivio, tra cui quelle catalogate dall'esercito israeliano con un testo sopra le immagini che ho grattato via. Ho anche lavorato con diversi film di finzione e documentari che ho trovato online in diversi archivi israeliani, per liberarli dall'uso coloniale. Nella storia di Israele, i palestinesi non esistono solo come presenza fisica, ma anche come fantasmi.  

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Nel suo lavoro con queste immagini, lei opera un'ulteriore, seconda manipolazione su di esse, ottenendo risultati molto diversi da quelli ottenuti da Israele. Come suggerisce il titolo del film, lei non si sottrae all'idea di essere un partigiano e all'impossibilità di un punto di vista neutrale, pur parlando di un processo di colonizzazione in corso. 
K
.A.: Per me fare questo film è un atto di resistenza. È piuttosto scioccante vedere l'uso interno di quelle immagini da parte dell'esercito di Israele, dove tutto secondo loro diventa un pericolo, anche un bambino che cammina sul fango. Per loro, un bambino, una donna che cucina in una tenda e un guerrigliero sono sullo stesso piano, sono tutti nemici, e questo è esattamente il processo di disumanizzazione che ha colpito il popolo palestinese e che sta permettendo le uccisioni di massa che ancora oggi avvengono a Gaza. Con il mio lavoro ho voluto dare una dimensione contemporanea a queste immagini, che non appartengono solo al passato, perché nel caso della Palestina stiamo parlando di un passato che è ancora presente. Graffiare le scritte aggiunte dall'esercito israeliano, trasformare il mare in un mare di sangue o dipingere di rosso gli spari sono scelte artistiche che commentano ciò che sta accadendo ora. Con il tempo, mi sono reso conto che la manipolazione trasforma queste immagini in qualcosa di molto emotivo che in qualche modo mi permette di toccare lo spettatore in modo diretto.

Chi ha girato quelle immagini d'archivio? C'è anche una scena tratta da un film israeliano con un dialogo che riflette sulle relazioni sentimentali...
K
.A.: In quella specifica scena, la coppia parla della propria relazione in modo molto bizzarro e rappresenta inconsciamente ciò che Israele ha fatto a questo Paese. Mi ricorda l'espressione israeliana “sparare e piangere”: sparano ai palestinesi e poi piangono per questo, “perché me l'avete fatto fare?”. Come se fosse colpa dei palestinesi. L'intelligenza coloniale di Israele li presenta sempre come vittime, anche quando rubano ai palestinesi. Il Palestine Research Centre è stato creato per documentare la storia dei palestinesi, contiene libri, fotografie e film. Tra questi, si possono trovare filmati girati dagli inglesi nel loro periodo coloniale, che coincide con l'inizio dell'oppressione, e probabilmente sono stati girati dall'esercito britannico per documentare i propri crimini, il che dimostra l'ossessione dei governi fascisti di documentare tutto. Altri filmati contenuti nell'archivio sono stati realizzati da palestinesi, a scopo propagandistico, o per filmare i campi profughi per denunciare le loro condizioni. Alcuni filmati erano dell'UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente), che ha lasciato il Libano nel 1982, quando è iniziata la guerra, lasciando tutti i suoi archivi al Palestine Research Centre. Tutto questo è stato rubato dall'esercito israeliano e dimostra come, fin dall'inizio, lo Stato di Israele abbia cercato di delegittimare l'UNRWA, rubando anche il suo archivio. Questo processo mostra la volontà ultima di Israele di distruggere la Palestina e la sua società, che culmina con il bombardamento di ospedali e scuole. L'idea di A Fidai Film è quella di mostrare come il passato si ripeta continuamente; i roghi e gli arresti di uomini si ripetono dagli anni Venti. Non credo che esista un'immagine oggettiva; ogni immagine è soggettiva e, in un certo senso, questo è un film autobiografico perché tratta del Paese da cui provengo. Lavoro liberamente e questo lavoro cerca di fare ordine, aprendo la strada per esprimere me stesso e il rapporto che ho con queste immagini in un modo che diventi universale. Infine, questo film non riguarda solo la Palestina, ma qualsiasi luogo occupato e qualsiasi popolo sottoposto a oppressione.

È interessante che lei abbia parlato dell'oppressione della Palestina come universale, perché uno degli argomenti principali usati da Israele per rendere moralmente accettabili i suoi crimini e il suo colonialismo è la sua eccezionalità, come popolo, come Stato...
K
.A.: Credo che menzionare questa eccezionalità significhi cadere nella trappola della propaganda israeliana. Il film vuole mostrare ciò che è accaduto, ma non si tratta necessariamente di capire il contesto di ciò che stiamo vedendo. Si tratta di provare empatia per le condizioni del popolo oppresso, e l'ho fatto attraverso il linguaggio cinematografico e il montaggio, che è il fulcro di questo film.

Potrebbe approfondire gli altri elementi del suo stile, come la musica e i colori, in particolare l'uso del rosso per simboleggiare la violenza che caratterizza la storia della Palestina?
K
.A.: Il rosso è stato una scelta molto chiara fin dall'inizio, per rendere visibile questa violenza. Un'altra cosa che emerge chiaramente è la demonizzazione dell'altro, del non bianco, del non europeo. Il fatto che il non bianco sia vilipeso è stato introiettato dalla maggioranza delle persone. Quando vediamo una persona di colore, a volte siamo sospettosi a causa del processo coloniale di demonizzazione che va avanti da centinaia di anni, e i media sono uno dei principali veicoli di questa ideologia. Quando i palestinesi muoiono, scriviamo dei numeri, ma quando muoiono gli israeliani, scriviamo i loro nomi, in un processo continuo di disumanizzazione. Credo che il suono sia un mezzo migliore per esprimere empatia; quando sentiamo qualcuno soffrire, pensiamo meno al colore della sua pelle. Con questo particolare uso del suono, ho voluto creare un approccio umanistico e universale. Lavorando con Attila Faravelli, la sfida è stata quella di trovare un suono che fosse allo stesso tempo non familiare e comunicativo, fondendo alla fine tutti questi elementi per creare un approccio universale.

(Tradotto dall'inglese)

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