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BERLINALE 2025 Concorso

Rebecca Lenkiewicz • Regista di Hot Milk

“Il dolore che attraversiamo a volte crea un'alchimia che può diventare liberazione o realizzazione di sé, ma in quel momento non lo sappiamo”

di 

- BERLINALE 2025: La regista britannica parla dell'importanza dell'ambivalenza, dell'amore e delle metafore nel suo debutto alla regia

Rebecca Lenkiewicz • Regista di Hot Milk
(© Dario Caruso/Cineuropa)

L'acclamata sceneggiatrice Rebecca Lenkiewicz ha debuttato alla regia con Hot Milk [+leggi anche:
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intervista: Rebecca Lenkiewicz
scheda film
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, un accattivante adattamento dell'omonimo libro di Deborah Levy. Il film è interpretato da Emma Mackey nel ruolo della venticinquenne Sofia e da Fiona Shaw nel ruolo della madre costretta su una sedia a rotelle, Rose. Quando le due donne viaggiano verso la costa spagnola in cerca di guarigione, incontrano l'enigmatica Ingrid (Vicky Krieps). Cineuropa ha parlato con la regista poco dopo la prima del film in concorso alla Berlinale.

Cineuropa: Che ruolo ha l'ambivalenza per lei, come narratrice?
Rebecca Lenkiewicz: Beh, mi eccita perché in questo caso nulla è chiuso o concreto. Viviamo in un mondo in cui molte cose sono letterali, per cui è bello elevarsi al di sopra di questo e volare. L'ambiguità è una questione di scelta, e credo che questo sia bellissimo.

Il libro di Deborah Levy non si basa su una struttura di risoluzione del conflitto. Come ha affrontato la sfida di rappresentare questa ambivalenza in modo cinematografico?
Credo che nel libro ci siano metafore che si traducono magnificamente sullo schermo. Per esempio, nel libro si parla del cane che non smette di abbaiare: nel film si può rappresentare sonoramente con un abbaio che è sempre presente. E il cane, per me, è proprio Sofia, che è cambiata e si sente incatenata; vuole andarsene, e c'è questa co-dipendenza [con la madre]. Anche il silenzio può essere molto ambivalente, e gli attori del film lo esprimono brillantemente: si possono scrutare i loro volti, ma non si è mai del tutto sicuri di capire il loro silenzio. Si segue il loro percorso, ma non c'è nulla [nelle loro parole] che sia davvero risolutivo, il che lascia spazio per riflettere su ciò che potrebbero pensare.

C'è un'esteriorizzazione, ma non attraverso le parole: tutti i personaggi sembrano incapaci di esprimere le cose importanti. Come ha lavorato lei, come regista, con gli attori per trovare il giusto equilibrio?
Andavo a casa di Fiona Shaw e parlavamo molto della sceneggiatura e del suo personaggio, che nel film parla di più. Per il ruolo di Sofia, che osserva e recepisce tutto, si trattava di trovare la sua voce. Emma e io abbiamo avuto solo un giorno per parlarne, ma abbiamo continuato a discutere durante le riprese. Come attrice, opera in modo scientifico: sapeva dove doveva essere psicologicamente, ma a volte faceva solo una piccola domanda, come “che priorità dà Sofia alla storia d'amore in questo particolare momento? O non gliene dà affatto?”. Non ho mai dovuto indirizzarla o dirle “puoi pensare questo?” o “puoi fare quest’altro?”. C'era molta libertà con gli attori: la macchina da presa era fissa, ma loro avevano spazio per evolversi ed esplorare. Il silenzio mi ha sempre interessato. Scrivo molto per il teatro e la gente pensa che le opere teatrali si basino interamente sulle parole. Ma come ha detto lei, non dire tutto è molto più interessante che essere espliciti, perché devi tirare fuori qualcosa, scavare e interrogare, ed è lì che diventa affascinante [per me].

Come ha costruito il ritmo del film, tra riprese più lunghe e tagli veloci, insieme al direttore della fotografia e al montatore? È come se il film si contraesse e poi esplodesse, mettendo a nudo tutte le emozioni nascoste in una volta sola.  
Il direttore della fotografia Christopher [Blauvelt] e io abbiamo usato la parola “muscolare”; volevamo che [il film] fosse minimale e muscolare. Abbiamo anche discusso di come realizzare i primi piani e di quanto sia toccante vedere il volto di qualcuno da vicino se lo si è visto molte volte solo da lontano. Ho scelto Mark [Towns] perché pensavo che saremmo stati molto diversi, e le differenze possono essere davvero grandiose quando si crea qualcosa. Poi, il ritmo è stato influenzato anche dal sound design e dalla musica: volevo che Matthew Herbert facesse qualcosa di strano, a volte romantico, ma comunque strano.

Il suo film ha un'epigrafe diversa da quella del libro. Perché Louise Bourgeois?
Era un omaggio a una donna artista che ha fatto di tutto e ha lavorato fino a novant'anni, contro ogni previsione. Ma quella citazione [“Sono stata all'inferno e ritorno, e lasciatemelo dire, è stato meraviglioso”] mi è sembrata evocare la relazione tra Sofia e Ingrid. Il dolore che proviamo a volte crea un'alchimia che può diventare liberazione o realizzazione di sé, ma in quel momento non lo sappiamo. L'idea era quella di parlare dell'amore e di mostrare quanto l'amore possa essere infernale. Ma lo sperimentiamo comunque volentieri, lo sentiamo e cerchiamo di guarirne.

(Tradotto dall'inglese)

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