Alessandro Piva • Regista di Fratelli di culla
“In Italia, un numero impressionante di persone sono state allevate negli istituti di accoglienza, un fenomeno che non può essere relegato a pochi articoli di giornale”
- Parliamo con il regista di bambini abbandonati, emancipazione femminile e ricerca delle proprie radici, i temi al centro del suo documentario sull’ex brefotrofio di Bari

Nel suo nuovo documentario Fratelli di culla [+leggi anche:
intervista: Alessandro Piva
scheda film], Alessandro Piva racconta le storie dei piccoli ospiti dell’ex brefotrofio di Bari, che, dal dopoguerra in poi, accolse migliaia di bambini abbandonati alla nascita. Il film, dopo il debutto al 16mo Bif&st - Bari International Film&Tv Festival nel Concorso per il cinema italiano, comincerà il 3 aprile un tour nelle sale di varie città italiane, distribuito da Seminal Film.
Cineuropa: La sua casa di famiglia, a Bari, si trovava a pochi metri dal brefotrofio, l’istituto che per decenni ha accolto i bambini non riconosciuti alla nascita. Che cosa l’ha spinta, oggi, a raccontarne la storia?
Alessandro Piva: Quando ero ragazzino, ero molto incuriosito da questo posto enorme. Poi, alla fine degli anni Novanta è stato chiuso e l’ho visto degradare negli anni. Un giorno scopro che i social sono pieni di appelli di persone che sono passate da quella struttura. Persone che in molti casi hanno scoperto in età adulta di essere state adottate e che, nonostante abbiano delle famiglie adottive solide, hanno un bisogno prepotente di risalire alle proprie origini. Oltre al fatto di ritrovarsi nello sguardo, nella fisionomia di una madre naturale, il loro bisogno è quello di capire se sono nate da un atto d'amore. Un bisogno irrinunciabile di verità che oggi si scontra con tutta una serie di impedimenti burocratici, in nome di un diritto all'anonimato che molte di queste madri naturali hanno formalizzato nel momento in cui hanno consegnato i loro bimbi a queste strutture di accoglienza. Ma la cosa più importante che mi ha spinto a fare il film è il fatto che in Italia un numero impressionante di persone sono state allevate in questi istituti di accoglienza. Parliamo di un milione di persone in cinquant’anni, dal secondo dopoguerra in poi. Ecco, un fenomeno di questa portata, con questi numeri, non può essere relegato a pochi articoli di giornale o a rare occasioni di approfondimento.
Questo tema si intreccia inevitabilmente con l'evoluzione della condizione femminile negli anni ’70.
Parallelamente alla trama principale, che è quella del brefotrofio, c'è la storia del cambiamento della percezione che le donne hanno avuto di sé stesse a partire dal dopoguerra italiano. Da una condizione di totale subalternità lavorativa, familiare, psicologica, personale, a una condizione di rivendicazione che è stato un momento di crescita importante per il nostro Paese. Nei repertori che abbiamo esaminato spesso emerge una sorta di parola d'ordine: la gente mormora. Quello che all'epoca era uno scandalo, ossia partorire un bambino fuori dal matrimonio, ha fatto sì che milioni di donne abbiano dovuto abbandonare i loro figli. Ha fatto sì che lo Stato si sia reso conto delle dimensioni di questo fenomeno e abbia investito enormi risorse nell'organizzazione dell'accoglienza all'infanzia abbandonata. È il portato di una cultura, quella nostra, cattolica e democristiana che, dal punto di vista politico, probabilmente ha aiutato il Paese a risollevarsi più velocemente dai disastri della guerra. Ma è anche vero che ne ha rallentato la coscienza civile e ha fatto sì che fenomeni come questo dell'abbandono minorile proliferassero in maniera abnorme rispetto al resto d'Europa, almeno rispetto ai paesi non di matrice cattolica.
Quindi è grazie ai movimenti femminili se istituti di questo tipo hanno cominciato a chiudere?
La legge sull'aborto ha definitivamente ridimensionato il numero di abbandoni minorili, tant'è che le strutture alla fine degli anni Novanta sono state chiuse non tanto per nuove consapevolezze etiche, quanto per mancanza di utenza. Il brefotrofio di Bari è stato chiuso nel ’98: dai quasi 300 ospiti degli anni Settanta era passato ad averne cinque.
È stato difficile trovare gli ex ospiti dell’istituto e farli parlare?
Documenti ufficiali non ci sono, ma a partire dagli appelli sui social e dall'associazionismo sul tema, che cerca di mettere in rete le informazioni, non è stato difficile trovare persone alle quali chiedere di rilasciare un'intervista. È stato più difficile orientarsi in questo mare magnum di persone, scegliere quelle giuste, quelle che non prendessero questo documentario come un Chi l'ha visto, come un luogo dove fare un appello. Abbiamo dovuto trovare il giusto equilibrio tra il bisogno di verità, la voglia di raccontarsi anche intimamente e il rispetto del rapporto con le famiglie adottive.
Il film si concentra anche sulle operatrici della struttura: le vediamo ricordare quegli anni con gioia.
Essendo la struttura restata in piedi fino a poco tempo fa, abbiamo trovato delle persone, oggi settantenni all'incirca, molto lucide e che sono state capaci di ritornare a quei tempi in maniera efficace, perché – sarà per la tenera età dei loro ospiti, sarà per il fatto che anche loro erano molto giovani, sarà per il fatto che era una comunità tutta declinata al femminile – quello è un momento della loro vita che loro considerano positivo. Perché, ci tengo a sottolinearlo, questo documentario non parla solo di storie tristi o faticose o strappalacrime. Questo è un documentario che racconta la vita come è, con i chiari e con gli scuri, e quindi ci sono anche storie di persone che hanno trovato dopo una lunga ricerca la propria madre biologica semplicemente per dire grazie: grazie di avermi fatto nascere, di avere accettato questo destino e di avermi comunque consentito di vivere la mia vita.
Questo film prosegue il suo percorso documentaristico sulla società del dopoguerra. Cosa l’attrae in particolare di quel periodo?
Far parlare le persone anziane, ricordare le loro epoche passate e restituire un ritratto della loro visione delle cose quando erano più giovani è come una macchina del tempo per me, mi affascina moltissimo. Ritrovi nei loro gesti, nei loro sguardi l'energia che avevano tanti anni fa. Poco tempo dopo l'uscita di Pasta nera, il mio primo film sul tema, ho visto cadere come birilli uno dopo l'altro i miei testimoni, persone emozionanti che hanno saputo raccontare la loro giovinezza e le loro vicende con una vividezza straordinaria. Ecco, io sono orgoglioso di averli fermati con le loro testimonianze prima che fosse troppo tardi. Ora sono al secondo capitolo, non so se ne farò altri così, però quello che so è che sento di avere quasi un dovere di farlo: mi piace ascoltare questi scrigni di memoria che sono le persone che hanno vissuto a cavallo tra il Novecento e il nuovo millennio.
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